Questo blog ha interrotto le pubblicazioni il 14/09/2020, dopo 4 anni di attività.Le sue tematiche sono ora sviluppate da una nuova piattaforma:LA FIONDAhttps://www.lafionda.com |
<
di Giuseppe Augello – Fra le tante variegate forme di violenza silenziosa individuate dalle associazioni a difesa della donna e oggetto di dibattito ed enunciazioni varie sulle riviste femminili e persino in qualche estratto di notizie giuridiche, si rileva con sempre maggiore insistenza qualcosa di non meglio definito che come “violenza economica”. L’ineffabile Sole24Ore ha dedicato un paio d’anni fa un articolo a questo argomento che continua a fare scuola. Le stesse fonti che ne parlano ammettono essere un crimine “sottile da definire, più difficile da stanare, più complesso da condannare”. Ma poiché quasi il 2% (udite udite) delle donne tra i 16 e i 70 anni in Italia dichiara di averla subita, e si presume che molto spesso la violenza economica si mischi con gli altri tipi di abusi sulle donne, tale percentuale esigua è rilevante perché è il tipo di violenza che terrebbe in scacco le donne che vogliano separarsi.
A scanso di equivoci, è definita violenza economica anche il semplice amministrare da parte del marito-padre le entrate e le uscite della famiglia col criterio del “buon padre di famiglia”, spesso enunciato per classificare una sana gestione aziendale. Dicono infatti le fautrici del nuovo, ma non meno pernicioso di altri, tipo di violenza, che “la violenza economica emerge difficilmente perché è difficile riconoscerla lì dove subentrano dinamiche di affetti e sentimenti e anche di stereotipi. Insomma, la donna può non vedere nel comportamento del marito un abuso, ma un sostanziale diritto perché dopotutto lo stipendio lo guadagna lui, ma resta ciò un abuso; per non parlare poi delle situazioni di lavoratrici la cui paga viene ‘amministrata’ dal compagno. Come mai? E’ semplice. Infatti, come denunciare un compagno o un amico violento quando è il sostentamento economico della famiglia? Quindi, la prima cosa da fare quando ci si unisce a un partner è salvaguardare la possibilità di denunciarlo. Si sa, prima o poi arriva la necessità. Meglio essere previdenti.
Entrando più nel dettaglio, dicono le (e gli) intellettuali del neofemminismo che le forme di violenza economica si declinano ad esempio:
- nell’impedimento di conoscere il reddito familiare,
- di avere una carta di credito o un bancomat,
- di usare il proprio denaro
- e il costante controllo su quanto e come si spende.
- l’impedimento di lavorare fuori casa
- lo sfruttamento dei guadagni della donna da parte di un marito volontariamente (?!?) disoccupato.
Si presume che molto spesso la violenza economica si mischi con gli altri tipi di abusi sulle donne.
Non è dato sapere in quale modo dovrebbe esercitarsi l’impedimento di una sola di tali ormai normalissime attitudini. Forse si potrebbe chiedere a quel due per cento di violentate economicamente. Le urla e le botte infatti rientrano in altre fattispecie criminose, punite con altri articoli del codice penale, per cui non vanno considerate. Esisteva una volta un certo rispetto per il marito che consentisse alla moglie di stare a casa, preferendo alimentare col suo solo reddito, ritenuto sufficiente per tutta la famiglia, ogni esigenza della moglie. Anzi, ciò veniva considerato oltremodo gratificante come segno distintivo di appartenenza a un ceto sociale più elevato. Oggi non può in alcun modo essere consentito, perché tutto ciò, dicono, imporrebbe alla donna una posizione di svantaggio in seguito alla separazione. Bene, meglio che ambedue sbarchino il lunario e le ex si preparino a mantenersi da sole quando giungerà (e giungerà) la separazione. Viceversa lui dovrebbe emettere un congruo assegno anche per la moglie oltre che per i figli, per evitare ogni “violenza economica”, che va combattuta. Eh sì, sembrava un gesto premuroso quello del marito e lei magari subito diceva sì.
Secondo uno studio del Women Economic Indipendence & Growth Opportunity, il 53% delle intervistate ha sperimentato una situazione simile. Situazione che può diventare l’anticamera della violenza economica! “Accentrando su di sé la gestione finanziaria l’uomo manda un messaggio preciso: Non ‘Ci penso io, cara, non preoccuparti’, ma ‘Tu, mia cara, non vali niente’. Spesso, dicono, iniziano così gli abusi che sfruttano il denaro come strumento di potere ai danni della donna”, dice Claudia Segre, presidente della Global thinking foundation, che promuove l’educazione finanziaria tra le fasce più deboli e organizza i corsi di alfabetizzazione finanziaria D2-Donne al Quadrato. “La buona notizia è che la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne ha finalmente riconosciuto questa forma di sopraffazione”.
Quella cattiva è che ancora oggi l’abuso passa inosservato, come ha sintetizzato la numero uno del tennis Serena Williams in una campagna di sensibilizzazione: “se avessi un occhio nero, un osso rotto o un braccio pieno di lividi, si capirebbe subito che ho bisogno di aiuto. E le violenze che non si possono vedere?”. I soprusi iniziano di soppiatto Per esempio con lui che ossessivamente verifica gli scontrini della spesa, si occupa in modo esclusivo delle operazioni bancarie, magari con la scusa di sollevare lei dall’ennesimo compito. E quando giunge la separazione? Lei si ritrova, “mutatis mutandis”, dicono, in mutande. A meno di un cospicuo assegno che la risarcisca anche degli anni passati a non lavorare e crogiolarsi nel ruolo di “regina della reggia di casa”. In altri termini, la donna ha diritto ad una separazione che non le faccia perdere un solo euro per il fatto stesso di liberarsi del marito-compagno-padre. Viceversa sussistono gli estremi di denuncia per “violenza economica”.
Ora, assimiliamo la famiglia ad una piccola azienda a conduzione familiare. Esisterà qualcuno, in tale azienda, che faccia i conti, pena la mancanza di sussistenza. Esisterà qualcuno che pensi concretamente alle spese necessarie e alle meno necessarie ma possibili in base al bilancio. Così come qualcuno dovrà pensare ad accantonare fondi per le spese future prevedibili di una certa entità (casa, auto, vacanze e studi per i figli, seconda casa) e per l’assolvimento degli oneri fiscali con lo Stato. Se tale contabilità venisse svolta dall’uomo padre, si configurerebbe come una dinamica culturale che vede nella figura maschile quella incaricata all’interno della famiglia di gestire le finanze; stereotipo quindi da abbattere. Per quanto ne dicano il sentire comune e l’esperienza, successivamente a un matrimonio o all’inizio di una convivenza avviene spesso che la coppia apra un conto corrente cointestato e vi versi il frutto delle attività lavorative. Ma avviene anche spesso che in tale conto confluisca il reddito solo dell’uomo, mentre gli eventuali proventi del lavoro della donna si incanalano verso un conto intestato a lei personalmente.
Sostieni e diffondi la sottoscrizione solidale per i 118
contro i manifesti sessisti della Regione Lazio.

Nella prima ipotesi, più frequente quando la donna non lavora o lavora con una entrata molto limitata, supponiamo che i coniugi si pongano, subito dopo iniziata la coabitazione, il problema di come spendere e quindi gestire tale somma. Costituisce “violenza economica” il dotarsi, da parte della donna, del solo bancomat col quale prelevare a piacimento e non curarsi delle altre esigenze e sopravvenienze. Cosa che avviene spesso col beneplacito del coniuge e dovrebbe assicurare almeno un regime concorde. Infatti, dice la teoria suprema femminista, in merito a tale evenienza, ciò costituisce il primo passo verso una dipendenza economica che si rileva fatale al momento della separazione. Lasciamo quindi perdere. Niente bancomat per liberarsi della necessità di condividere la gestione del bilancio familiare, cari uomini.
Allora sopravviene un’ulteriore soluzione. Ogni singola spesa, effettuata dall’uno o dall’altro, venga condivisa (e quindi autorizzata) da tutti e due gli ancora innamorati coniugi. Ovvero deve essere spiegata la necessità di spendere ad esempio una certa cifra anziché un’altra per effettuare una riparazione manutentiva all’auto o alla casa, da uno all’altro. Ma parimenti andrebbe illustrata e spiegata la necessità di acquistare un vestito da 1000 euro, firmato, anziché uno per un ventesimo della cifra, o una scatola di trucchi da 200 euro anziché da 20 euro alla bancarella. E no, non ci siamo, perché la violenza economica si estrinseca anche nel “controllo per condivisione di ogni spesa effettuata dalla donna, con raccolta degli scontrini fiscali”, dicono le femminili paladine che avvisano: “le avvisaglie della violenza economica vanno colte e interrotte in tempo, perché sono le avvisaglie di altri tipi di violenza, fino a quelle che ledono la dignità ed il fisico della donna”. Non se ne esce insomma.
Quando la donna mantiene un conto personale separato, in presenza magari di un suo reddito più rilevante, avviene spesso che sia comunque l’uomo che gestisce le spese necessarie, come le bollette, l’affitto, il mutuo, il condominio ecc, mentre lasci alla compagna le decisioni riguardanti le sue spese necessarie o voluttuarie. Sembrerebbe un normale caso di menage familiare in comune accordo. Per niente, anche in questo caso entra di prepotenza la concezione più avanzata di dipendenza economica e quindi di violenza. A parte l’allontanamento della donna dalla consapevolezza nella gestione familiare, con chiara visione delle spese e delle entrate complessive (ammesso che ne voglia sapere qualcosa), si configura il caso di partner che impediscono alle partner di gestire (letteralmente) i soldi della famiglia (ovvio che si intende quelli guadagnati dal lui) o i propri (distinti dai primi, quindi quelli frutto del reddito di lei), e si pone un grosso problema: in caso di separazione la signora si vedrebbe capitombolare addosso spese necessarie che prima non valutava neanche. La metà del mutuo o il condominio ad esempio. Che inciderebbero sulla precedente disponibilità economica. A questo punto i casi sono due. O l’ex marito in qualche modo continua a pagare le stesse identiche spese, anche contro le spettanze da codice civile, e quindi onerandosi di pagare a sua volta anche quelle spese a lui necessarie dopo avere lasciato la casa familiare, o semplicemente la donna si accorge che separarsi è un cattivo affare e vi rinunzia. Anche quando si senta o affermi di non essere soddisfatta economicamente e quindi maltrattata. Ricadiamo nel pieno della violenza economica, che intanto può sfociare anche in altri tipi di violenza.
La violenza economica si estrinseca anche nel “controllo per condivisione di ogni spesa effettuata dalla donna.
L’unica è assicurare alla ex tramite un congruo assegno il “mantenimento del tenore di vita precedente”, giustificando così tale assegno in un modo ormai definito non lecito dagli ultimi interventi legislativi; oppure che si oneri il non compianto sposo di un assegno per i figli talmente congruo da compensare anche le spese necessarie e vitali che la ex continuerà a non pagare di tasca propria. Caso più frequente. Dice ancora la teoria suprematista nazifemminista: “tutte le forme di controllo, di esercizio del potere che passano attraverso la gestione del denaro, tutte le condizioni che pongono la donna nella condizione di non essere libera di poter decidere di lasciare il proprio compagno per motivi economici, costituiscono violenza economica”.
Per buona misura, insistono le stesse autrici della teoria della violenza economica, fanno di essa parte una casistica che va dalla dilapidazione del patrimonio familiare o della moglie al farle firmare assegni in bianco, fidejussioni o documenti “in fiducia”; dal far indebitare la propria moglie beota a farle fare da prestanome; dallo svuotare il conto corrente comune prima della separazione al “contingentare” (limitare) le spese di prima necessità. Soluzione? Rivolgersi a un centro antiviolenza, ovviamente. Per interrompere la spirale abusiva, “in un matrimonio (ma anche in una convivenza) è fondamentale parlare di soldi, senza temere che certi discorsi intacchino i sentimenti”, avverte Claudia Segre. Inoltre, mai pensare che una scelta di natura finanziaria sia irreversibile. Se una donna lavora, per esempio, non deve mettere a disposizione della famiglia l’intero reddito, (e quanta parte? Decide lei ovviamente). Mentre chi sta a casa deve pretendere (il termine “pretendere” qui si sposa bene con “a meno quindi di una lite con relativa denuncia di maltrattamento”) un conto cointestato, ma con firme disgiunte, oltre a Bancomat e carta di credito a proprio nome. E sarebbe bene pensare a una polizza pensionistica. Tutto pagato da pantalone.
La violenza economica infatti è “un insieme di atti di violenza finalizzati a mantenere la vittima in una condizione di subordinazione e dipendenza, impedendole l’accesso alle risorse economiche, sfruttandone la capacità di guadagno, limitandone l’accesso ai mezzi necessari per l’indipendenza, resistenza e fuga” (UNWomen, 2015). Declinando la parafrasi al contrario: non vi è violenza economica solo se la vittima non dipende economicamente (è, o si comporta come se fosse, del tutto indipendente) accede senza limiti alle risorse economiche della famiglia (un limite posto è violenza), o viene sfruttata nelle sue capacità di guadagno (le pone al servizio della famiglia o le condivide col partner).
E infine veniamo alla parte più bella; sono infatti facilmente reperibili dichiarazioni quali questa: “i padri separati declinano il ruolo di genitore in una spartizione paritaria del tempo dei figli, a prescindere dalle esigenze di questi ultimi. Inoltre, sembrano in prevalenza ignorare che la responsabilità genitoriale si declina prevalentemente in obblighi nei confronti dei figli, non già in diritti sopra di loro. Il primo obbligo che lasciano inadempiuto è proprio quello di assistenza materiale e generalmente nel contesto di una serie di atti e condotte controllanti”. Un affondo al DDL 735/2018 non guasta, del resto è stato proprio tale DDL a rinfocolare le accuse di violenza economica, e quindi di violenza contro la donna che vuole separarsi, allo sventurato e vilipeso senatore. Unitamente alle contestazioni di qualunque e qualsivoglia limitazione della donna alle sue scelte economiche. Possibile solo e soltanto grazie ad una separazione che segua a brevissima scadenza l’unione in matrimonio o la nascita dei figli in una convivenza. Conseguenza necessaria di una qualunque economia domestica e familiare che non può che costituire violenza economica. Senza scampo. Alla faccia della libertà di scelta.
Sostieni e diffondi la sottoscrizione solidale per i 118
contro i manifesti sessisti della Regione Lazio.

Per essere sempre aggiornato sui nuovi articoli, iscriviti alla newsletter di “Stalker sarai tu”:
Leave a Reply