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di Anna Poli – Il mio corpo è mio? Non lo chiedo alle femministe, poiché ben conosco la loro risposta perentoria e indiscutibile nonché la loro scarsa dedizione al dialogo. Lo chiedo a me stessa, principalmente, ma lo chiedo anche a chiunque ami le domande più delle risposte e desideri osteggiare le dittature frantumandone i dogmi che ne stanno alla base. Lo chiedo poiché non mi piacciono gli slogan, i motti, le frasi fatte, quelli che diventano cantilene, automatismi e che finiscono per oscurare i significati profondi delle cose. Lo chiedo perché la festa della donna, quest’anno, è stata il suicidio della cultura e il trionfo dell’assenza di valori e mi piacerebbe che almeno un pochino la cosa cominciasse a preoccupare.
Il mio corpo è mio? Ammettiamo la prima risposta, quella più facile: è mio, lo comando io, lo gestisco io, per me decido io, di me sono responsabile io. Come mi sarà possibile conciliare questo tipo di convinzione con l’aspettativa, o addirittura la rivendicazione, secondo cui rispettare questo corpo dovrebbe diventare preciso dovere di qualcuno che non sia io? Come potrò pretendere che un altro sia cortese e abbia ogni premura nei confronti di qualcosa di cui non si sente in alcun modo responsabile proprio perché non gli appartiene? In virtù di che cosa potrò un giorno esigere di vedermi garantito il diritto alla salvaguardia, all’attenzione, alla cura, all’amore, se prima non ho concesso e insegnato all’altro innanzitutto la possibilità di sentirsi responsabile di me?
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Il principio per cui qualcuno riga la fiancata di una macchina (molto prima di essere un approccio decisamente fallimentare alla gestione della rabbia) risiede nel fatto che la macchina non è sua. Se lo fosse, se ne guarderebbe bene. E non solo non è sua, ma non se ne sente affatto responsabile. Non gli appartiene, non l’ha pagata e magari il proprietario gli ha pure fatto un torto, dunque non solo non ne ha cura, ma nemmeno prova alcun senso di colpa nel maltrattarla e potremmo addirittura ipotizzare che, una volta compiuto l’atto a sfregio, questo genererà in lui anche un certo piacere. Ora, dietro alla parola d’ordine più amata dalla femministe si nasconde in realtà il germe di un individualismo egoista gretto e diseducativo, una trincea che colpevolizza e allontana proprio coloro che invece dovrebbero essere visti come complici e alleati.
Lungi (ma proprio lungi lungi lungi) da me promuovere motteggi femministi, però proviamo ad immaginare quanto cambierebbe la portata educativa di quella frase se essa diventasse: uomo, rispetta il mio corpo perché il mio corpo è anche tuo. Uomo, il mio corpo non è mio: è del mondo, della vita, della società. E tu ne sei responsabile tanto quanto me. Amalo, prenditene cura, fatti garante di ogni suo diritto, perché sei tu, in fondo: il mio corpo sei tu. E poi sai che c’è di nuovo, uomo? C’è che io farò lo stesso con te: il tuo corpo è anche mio e me ne prenderò cura. La tua posizione sociale, i tuoi riconoscimenti, i tuoi meriti, i tuoi diritti sono anche i miei dunque li riconoscerò, dunque non li calpesterò e lo stesso farai tu. Perché ci apparteniamo e insieme apparteniamo al mondo. E solo insieme possiamo funzionare, solo amandoci, rispettandoci, solo sentendoci responsabili dei nostri corpi che non sono nostri e di tutto ciò che ci riguarda ma non ci appartiene.
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Purtroppo tutto questo non è, né potrà mai essere femminismo. Questo non può che essere buon senso e amore per il prossimo, tutta roba sconosciuta alle dittature. Ma tanto valeva tentare. Purtroppo tutto questo presuppone l’unione dei generi, quando invece è la lotta la condizione che paga di più. In termini di voti, di applausi e di consensi nelle piazze, soprattutto tra i giovani, che sono facili prede delle adrenaline da battaglia. Purtroppo tutto questo richiede il temperamento mite e razionale dell’adulto, cui i nostri nuovi giovani cinquantenni, che sventolano l’illusione del sono contro dunque sono alla faccia del cogito, sono ben lungi dall’approdare. I nostri modelli parlamentari, gli esimi educatori che anziché conoscere l’italiano e attraverso quello fare cultura, prendono una manciata di valori a calci nel culo su di un cartello come se disponessero poi di alternative valide, di uno straccio di qualsiasi cosa da proporre in sostituzione.
Ed eccolo qui il punto, ahimè: questo femminismo non propone proprio un bel niente. Distrugge senza la benché minima idea di come riedificare, elimina senza sostituire, denigra senza essere meglio, cancella senza riscrivere. Persegue il suo fine sottovalutando l’importanza dei mezzi che adotta. E, così facendo, ammette tutto. Il vandalismo, la bestemmia, l’invettiva, la blasfemia; va bene tutto purché si motteggi e si balli sul cadavere del nemico appena inventato. Che non è meno inventato di quel dio che le odierne femministe si sentono libere di dissacrare semplicemente perché non l’hanno inventato loro. Tuttavia, rimane una quasi impercettibile differenza: il dio inventato è quello che ama il prossimo suo come se stesso, porge l’altra guancia, predica pace e amore, invita al silenzio, al dialogo interiore e dona sempre senza chiedere nulla in cambio. Però anche “più pompini, più sborra, più porti aperti come i vostri culi” sono indubbiamente argomenti impregnati di sostanza. Grazie, femminismo.
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