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I programmi televisivi di Barbara D’Urso sono generalmente oggetto di scherno o indignazione. Il suo è un giornalismo (o cronachismo) spesso molto “all’amatriciana”, condito di lacrime facili e retorica fine a se stessa. Eppure occorre dare sempre a Cesare ciò che è di Cesare. Si deve a Barbara D’Urso e al suo staff un’operazione da cui tutti i grandi media si sono tenuti debitamente lontani finora: interpellare il padre naturale di Giuseppe, il povero bimbo di 7 anni ucciso a bastonate e botte, domenica scorsa a Cardito, per mano del nuovo compagno della mamma. Fin da quando è uscita la tragica notizia mi chiedevo chi fosse il padre del piccolo, dove fosse e perché non venisse intervistato. In realtà immaginavo il motivo, e solo Barbara D’Urso nel suo programma l’ha ufficialmente reso pubblico.
Felice, questo il nome del papà del bimbo, è uno dei tanti, tantissimi papà separati d’Italia. Uno dei tantissimi messi alle corde e ai margini dall’ex moglie, con il determinante apporto del sistema che ruota attorno alle separazioni e agli affidi. Ai microfoni di “Pomeriggio Cinque” sia lui che i suoi familiari confermano che si trattava di una delle tante storie tutte simili una all’altra: Felice cercava il contatto con i suoi bambini, ma “lei mi diceva che non dovevo più telefonare perché non appartenevo più a loro. Io ho continuato ad insistere, ma non mi hanno risposto più a telefono”. Strano che non sia scattata una denuncia per stalking, di solito avviene così. Si vede che la donna non frequentava centri antiviolenza.
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Interviene poi Vincenzo, fratello di Felice: “per vedere i figli mio fratello era costretto ad andare alla stazione di Sorrento. Solo lì l’ex compagna glieli faceva vedere. Lui li sentiva telefonicamente. Non sapevamo nulla del fatto che i bambini fossero a Cardito. Pensavamo fossero a Sorrento dalla nonna. Quando i bambini avevano bisogno di qualcosa, mio fratello portava tutto all’ex compagna alla stazione di Sorrento, dove si incontravano. Spesso, però, lei non rispondeva al telefono”. A opporre questi ostacoli, è bene ricordarlo, è una donna, una madre, la cui posizione nell’omicidio del piccolo Giuseppe è ancora sotto valutazione degli inquirenti. C’è l’ipotesi che sia stata a guardare il nuovo compagno massacrare il bambino senza intervenire e che abbia assistito alla sua agonia senza chiamare soccorsi. L’autopsia darà un contributo a chiarire se questo comportamento disumano c’è stato davvero o no.
Anche su questa ipotesi Vincenzo ha qualcosa da dire: “se la madre ha assistito a tutto e se è vero che i bambini avevano già subito maltrattamenti, significa che ha sempre coperto Tony [il colpevole dell’uccisione del piccolo Giuseppe]. Se non aveva il coraggio e aveva paura, poteva avvertire le forze dell’ordine o almeno chiamare noi e saremmo intervenuti immediatamente. Questa tragedia si poteva evitare. Mio fratello è un uomo distrutto. Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere da Valentina, conoscendola. Se ha sbagliato, deve pagare anche lei”. Vincenzo in questo ha ragione da vendere, tuttavia la sua visuale è ancora troppo limitata, probabilmente per lo sbigottimento e il dolore. Come per il caso di Desirée Mariottini, sarebbe opportuno ragionare a ritroso per capire davvero chi, oltre all’esecutore materiale del delitto e a chi l’ha coperto, dovrebbe pagare per la morte di Giuseppe.
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Non è facile andare a ritroso, però. Sia perché l’omicida è una persona non italiana, e questo scatena la tempesta anti-immigrati che infuria in modo ormai sistematico nell’opinione pubblica italiana, sia perché farlo va a toccare punti estremamente dolorosi del nostro sistema. Eppure due domande che vadano alla radice bisogna farsele. La prima è: in tutto questo, dove era e cosa stava facendo l’amplissima rete di soggetti incaricati, dietro lauti finanziamenti pubblici, di rilevare casi di violenze domestiche e di agire in via preventiva e protettiva? Certo, questi si attivano solo quando la persona in difficoltà accede ai loro servizi, ma con l’importanza che si danno e la montagna di soldi pubblici che prendono sarebbe più che doveroso che si attivassero per un monitoraggio attivo del disagio sul territorio di loro competenza. Ma, si sa, in genere sono troppo impegnati a far politica o a organizzare corsi ludici per le associate per riuscire a svolgere un’attività realmente utile.
La seconda domanda, ben più cruciale: chi ha ritenuto di affidare in via esclusiva Giuseppe e la sorellina Noemi alla madre? Chi ha consentito a quest’ultima di sequestrare di fatto i due minori impedendo al padre di frequentarli normalmente? E’ sensato ipotizzare che una frequentazione più assidua, magari pure paritaria, del ramo paterno avrebbe ridotto se non annullato le possibilità che esiti tragici come quello di domenica potessero avvenire. Forse Giuseppe e Noemi si sarebbero aperti con il papà, lo zio o il nonno, confidando le violenze e i maltrattamenti e consentendo loro di fare ciò che la madre non ha avuto la coscienza di fare. Eppure no: Felice poteva vedere i figli solo alla stazione di Sorrento, come un vero visitatore, un turista della paternità, perché erano stati affidati in esclusiva alla madre, probabilmente da un giudice che in sentenza ha scritto “affido condiviso”.
Come per il caso di Desirée Mariottini, ora che “Pomeriggio Cinque” ci ha fatto fare la conoscenza dell’ennesimo padre allontanato e alienato, salteranno sicuramente fuori storie truci per cui Felice è persona con precedenti penali, denunce per maltrattamenti o chissà cos’altro. Ora sicuramente la figura del padre naturale, possibile ma sabotata scialuppa di salvataggio per la vita del piccolo Giuseppe, verrà massacrata e demonizzata senza pietà. Ma la verità resta una: dietro la morte del piccolo c’è un intero sistema, quello che ritiene la figura paterna non importante, quando non dannosa, e quella materna l’unica indispensabile. Un sistema che agisce per sentenze emesse in piena violazione di una legge vigente (L. 54/2006) e che mette in campo strumenti di monitoraggio e controllo, servizi sociali e centri antiviolenza, efficaci quanto una pistola ad acqua.
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Giuseppe ora va a tenere compagnia a Ethan. Entrambi vittime di un sistema distorto, prima ancora che degli atti criminali di qualche maledetto bastardo o di proprie scelte fatali o delle proprie madri senza coscienza. L’uno e l’altro sono stati forzosamente messi da qualcuno nelle condizioni di perdere la propria vita in modo tragico e prematuro. Dunque, caro Felice, caro Vincenzo, mentre a voi va il mio abbraccio più stretto, lo stesso che ho dato al papà di Ethan Solinas, se volete auspicare che qualcuno paghi per la vostra terribile perdita, com’è giusto che sia, ampliate al vostra visuale e raccontatecela. “Pomeriggio Cinque” non ve l’ha chiesto e ve lo chiedo io: raccontateci quali erano i termini della separazione tra Felice e Valentina, diteci il nome del giudice che ha emesso la sentenza e, se tutto corrisponde a quanto qui ipotizzato, allargate le maglie della vostra richiesta di giustizia. In questo modo non solo le orribili morti di Giuseppe e Ethan avranno una forma di utilità, non solo si individueranno i mandanti morali del suo assassinio, ma forse spingeranno anche tutti a spazzare via la narrazione tossica che condanna a prescindere ogni uomo e padre, per la salvezza dei minori del presente e del futuro.
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