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di Giuseppe Augello – Ok del Senato quasi all’unanimità alla Commissione d’inchiesta sul femminicidio. L’aula ha detto sì al disegno di legge: 257 i voti a favore. Una Commissione monocamerale che svolgerà, ancora una volta, sulla base di statistiche taroccate, indagini sulla dimensione del fenomeno e su ogni forma di violenza di genere in Italia, con le forze politiche che hanno dato il via libera di comune accordo. Magari ne uscisse un ridimensionamento di un fenomeno inesistente, ma la relatrice Gelsomina Silvia Vono del Movimento 5 Stelle ha già commentato: “sarà una lotta più efficace e capillare alla violenza sulle donne, grazie alla nuova Commissione di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, la cui istituzione è stata approvata oggi dall’aula del Senato”.
Avevamo già capito l’antifona con la richiesta di rallentare l’approvazione del disegno di legge n.735 (citato come DDL Pillon) da parte di una nutrita schiera di pentastellate. Di fronte all’ingombrante avanzata elettorale dell’alleato, il movimento M5S getta la spugna e si arrende cercando di inglobare l’elettorato “piddino”, anche con l’assorbimento delle istanze a favore delle donne, col seguito nefasto della protezione femminile a cura dei centri antiviolenza e dei finanziamenti connessi.
Non è chiaro a che serva una nuova commissione che intende ripercorrere le stesse tappe della prima, forse abortita per il risultato elettorale. Magari ci metteranno dentro la protezione di qualche maschietto dalle violenze femminili? Improbabile. Ma ciò che è chiaro è che financo la Lega non disdegna, pur non essendo mai stato fino a oggi un partito incline alle istanze relative alla protezione della donna dalla violenza di genere. E il senatore Pillon, forse non abbastanza difeso dagli uomini-ex padri, privi come sono di appoggi mediatici, contro la sollevazione nazifemminista avversa al DDL di cui è cofirmatario, si è adeguato, votando anche lui per l’istituzione della Commissione.
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Eppure, lo si è visto nella videoregistrazione dell’incontro del 17 Ottobre scorso al Senato patrocinato dal “Corriere”, la protesta femminista ha mostrato ancora una volta tutta la sua imbecillità soprattutto nella forma degli interventi della senatrice Valeria Valente, del PD, seduta al tavolo insieme al senatore Lucio Malan di Forza Italia e alla moderatrice Alessandra Arachi, del Corriere della sera. Con una esposizione tutta emotività, frasi smozzate e virgolettate con le dita, incapace di un discorso di senso compiuto, più o meno afferma che “non è un testo che si basa sui figli, è un testo adultocentrico che antepone l’interesse dei genitori a discapito addirittura dei diritti e degli interessi dei minori. Su questo terreno noi come Partito democratico non arretreremo di un millimetro. Chiediamo anzi alle tante forze in Parlamento che si sono espresse in maniera critica rispetto a questo provvedimento di unire la loro voce alla nostra e insieme di andare avanti su questo percorso anche insieme alle tante forze che fuori dal Parlamento stanno provando a far sentire la loro voce”. Slogan, gridi di guerra, attacchi calunniosi e associazioni di idee all’insegna dei colpi al basso ventre, diretti al popolo femminile bisognevole di vittimizzazione e di adulazione al disopra e al difuori di qualunque parità di genere, che senza i privilegi parassitari cui attinge non darebbe loro alcuna possibilità di rivalsa.
Secondo la irrazionale esponente PD Valente, se diventasse legge, questa proposta rischierebbe “di azzerare 50 anni di battaglie e di conquiste sul terreno dei diritti, delle libertà e della civiltà”. Si riferisce al diritto di divorziare delle donne caricando solo l’ex marito padre di un mantenimento a 360 gradi dietro sequestro dei figli centellinati in due week end al mese. Per inciso per la Valente a 360 gradi c’è solo un “arretramento”, ignorando persino che arretrare di tale angolo vuol dire avanzare esattamente nella stessa direzione. Lapsus freudiano.
Dal punto di vista pratico, spiega la Valente, il DDL infatti tutela la bigenitorialità, che viene perseguita in maniera anche (?) ossessiva, a scapito dei bambini: con tempi di visita uguali tra padre e madre. Di ossessivo, come è evidente, c’è qui soltanto la ripetizione di uno slogan composto di aggettivi che non hanno alcuna spiegazione ne logica né morale. Come è possibile definire a scapito dei minori il mantenimento delle relazioni coi genitori analogamente che prima della separazione rimane una incognita, mai esplicitata da donne ormai prive del ben dell’intelletto.
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“Figli maggiorenni che devono chiedere al giudice il mantenimento per poter continuare a contare sull’assegno”, continua la Valente. Ovvero figli in grado di intendere e di volere, responsabili di fronte alla legge di ogni loro atto, in grado di decidere di mandare al diavolo i loro genitori per scegliere la vita che credono assumendosene le responsabilità, dovrebbero secondo la Valente essere trattati come fanciulli costretti a dipendere dalla mamma che li allatta grazie all’assegno di papà, tranne poi essere tacciati di “bamboccionismo”, incapaci di richiedere ad un giudice, cui mostrare di averne diritto, un mantenimento negato dal “Cattivissimo Me” papà, che forse potrebbe essere anche diseducativo, se mantenuto senza alcun limite né ragione.
Invano il Pillon fa presente che già la legge attuale limiterebbe l’assegno alla maggiore età. Inutile, la Valente, non ci sente né da questo orecchio né da altri. E la necessità di stilare un piano genitoriale che definisce nei minimi particolari la vita del figlio, e che può essere modificato solo con la presenza di un moderatore, sembra alla Valente uno scandalo. Guai a chiarirsi le idee sulle spese straordinarie cui andare incontro, che peraltro competono ad ambedue i genitori, dinanzi alla separazione non consensuale.
Più morbida la posizione di Malan, di Forza Italia, che sembra proiettato a trovare un accordo “che vada incontro alle esigenze reali, che abbia senso nella realtà”. “Niente ideologismi, niente burocratismo”, continua Malan, “bisogna fare in modo che i magistrati, che non sempre hanno la dovuta attenzione per questi casi, trattandoli in modo standardizzato (ma va’?) siano indotti a studiare caso per caso”. Bisogna aiutare i genitori a raggiungere un accordo, perché i magistrati possono essere i migliori, le leggi possono essere le migliori, ma se i genitori restano conflittuali tra di loro i bambini vivranno in situazioni difficili. “Sono a favore di limiti e di norme chiare che incoraggino in tutti i casi la relazione dei bambini con entrambi i genitori”, sostiene, bontà sua.
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Altra questione spinosa che solleva il disegno di legge, secondo la Valente ma non molto, è quella che riguarda la violenza familiare: anche se Pillon specifica che non si affronta minimamente nel DDL la violenza domestica (“è chiaro che chi compie violenza non può rimanere con i figli”), ci sono alcune norme, secondo Valenti, che invece lasciano spazio all’ambiguità. Ad esempio, dice, la violenza è equiparata al possesso di un’abitazione piccola tra i motivi elencati come eccezione per ovviare alla bigenitorialità perfetta: come dire, che avere una casa poco confortevole è come essere violenti. Ma la Valente conosce la differenza tra diritto Civile e Penale? Ne dubitiamo.
“E come la dimostriamo questa violenza, bisogna essere arrivati al terzo grado di giudizio?”, dice la Valente. Ma no, basta denunciare per prima, tanto chi denuncia per prima ha l’asso pigliatutto, risponde Pillon! Rammentando che sul piano penale, (purtroppo) il suo DDL non cambia proprio nulla. E l’alienazione ? Non esiste, dice la Valente. Che aborrisce la possibilità di affidare il bambino che rifiuta un genitore proprio al genitore rifiutato. Ma no, continuiamolo a farlo vivere con l’alienante. Dicono in coro gli altri. No, non era andata male, con la figuraccia barbina di fronte a qualche più onesta intelligenza fatta da tale Valente, che ad esempio alla domanda di un rappresentante delle associazioni a favore del DDL presente in sala, che le chiede quale sia per lei l’interesse del minore perché non è chiaro, ripete come un disco rotto farfugliando qualcosa che a fatica si traduce nella ripetizione che per lei personalmente il DDL non lo garantisce. E quindi non risponde.
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