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Mettere mano alla disciplina delle separazioni e degli affidi significa andare a modificare uno dei tanti meccanismi che governano le relazioni tra le persone. C’è la tendenza, complice la presenza di una proposta di legge di riforma attualmente in discussione, a concentrarsi solo su quello che in realtà è un aspetto parziale non solo del Diritto di Famiglia, ma di tutto l’ampio spettro relativo alle dinamiche che fanno da premessa e contorno a una situazione relazionale. Intervenire sulla regolamentazione di separazioni e affidi significa mettere mano a una parte soltanto di una questione che in realtà è sistemica. Ed è proprio la mancanza di una visuale di sistema a facilitare i conflitti sul tema specifico. In altre parole, se ci si elevasse in volo sopra la materia e si guardasse il quadro generale, è probabile che magicamente le parti in causa, uomini e donne nei loro ruoli di marito-padre e moglie-madre, si troverebbero a convergere su un punto di vista unico.
Per arrivare a quella felice condizione è però necessario accettare a priori alcuni principi a sostegno dei quali non è nemmeno necessario chiamare in causa chissà quali studi internazionali. Bastano logica e buon senso. E’ nelle cose che, in condizioni normali, un bambino cresca in modo armonico se entra in una relazione equilibrata con entrambi i genitori. Non esistono studi o argomenti che possano logicamente sostenere il contrario. E’ sulla base di ciò che quello della bigenitorialità può essere definito come diritto da riconoscersi al bambino. Ugualmente è indubbio che nel corso del tempo i ruoli dell’uomo e della donna dentro la coppia siano mutati, sulla spinta di cambiamenti storici, culturali, economici e sociali. Lo schema donna = caregiver / uomo = breadwinner, con il connesso carattere affettivo attribuito alla figura materna e quello normativo attribuito a quella paterna, già da molto tempo è stato ampiamente superato per lo meno nella sua versione netta e assoluta.
Restano, e non possono essere cancellate in quanto dettate dalla natura stessa dei due sessi, l’inclinazione empatico-affettivo-protettiva della madre e quella normativo-sfidante-repressiva del padre, ma i due piani hanno ormai da tempo ampie aree di sovrapposizione. L’evoluzione delle relazioni fa sì che entrambe le figure genitoriali, pur mantenendo salda la propria natura primigenia, possano esercitare efficacemente le funzioni che un tempo erano attribuite all’altro quasi in esclusiva. Esistono limiti e confini in questa sovrapposizione, ma va ammesso che c’è: la figura materna ha ormai ampiamente acquisito una buona parte di normatività tipica maschile, sebbene con i suoi normali limiti relativi (tipica l’espressione: “guarda che chiamo papà”, come richiamo a un’autorità regolativa assoluta); così come la figura paterna da tempo si è spalancata, pure con sollievo, ad aspetti di cura emotiva e vicinanza empatica verso la prole, anch’essa però con i suoi limiti relativi (per motivi puramente naturali sarà tendenzialmente sempre la madre a rivestire il ruolo di scrigno prezioso e assoluto dei sentimenti e delle pulsioni filiali; banalizzando: un morente invocherà sempre la mamma).
E’ indubbio che nel corso del tempo i ruoli dell’uomo e della donna dentro la coppia siano mutati.
Un terzo principio che andrebbe accettato in premessa riguarda il ruolo delle leggi. E’ parte di una narrazione distorta tutta contemporanea il fatto che esse debbano inseguire e assecondare umori e tendenze diffuse. Sono le leggi basate sui sondaggi o sui sommovimenti della pancia del popolo, che tanto gioco fanno ai politici che le concepiscono, pur essendo quasi sempre dannosissime. Occorre riconoscere alle leggi il loro ruolo primario, che è quello di posare binari etici in un mondo umano per sua natura portato al comportamento non etico. Le leggi, in altre parole, servono a delineare un modello di comportamento ottimizzante nella società, che viene imposto attraverso incentivi o sanzioni, anche quando quel modello di comportamento confligge con le tendenze popolari o con l’istinto tutto umano di sfuggire ai vincoli di un comportamento corretto. Difficile, credo, dissentire sul fatto che le leggi debbano servire a insegnarci-imporci condotte che altrimenti potremmo essere indotti a non seguire. Accettare questo principio è la terza premessa indispensabile per guardare correttamente al sistema entro cui la disciplina di separazioni e affidi trova attuazione.
Se si accettano come veri gli assunti sopra esposti, appare chiaro come innovare il Diritto di Famiglia solo per la parte delle separazioni e affidi sia un’iniziativa se non minimale, quanto meno parziale rispetto alla realtà delle cose e alle vere necessità. Oggi il sistema fa sì che alla figura materna venga attribuita maggiore rilevanza in termini di cura rispetto al padre già in costanza di una relazione tra i due adulti (sia esso matrimonio o altro tipo di conformazione). Da qui deriva anche lo scivolamento verso la maternal preference quando il legame si scioglie. Ma a ben vedere la negazione del diritto del bambino alla bigenitorialità esiste già a monte. Oltre a essere un dogma dal lato culturale, esso è stabilito per legge, laddove ad esempio la madre gode di congedi parentali infinitamente più ampi di quelli riservati al padre nel primo anno di vita del figlio. Un sistema che lacera da subito quella sovrapposizione di piani di cui si è detto, quell’area dove le funzioni complementari di cura e normative dei due genitori si ibridano. Intervenire solo su ciò che accade ex post, ovvero in sede di separazione e affido dei figli, è dunque parziale. A tale intervento dovrebbe accompagnarsi (o dovrebbe seguire) una perfetta parificazione di madre e padre anche nella fase ex ante, con congedi parentali ampi e uguali per entrambe le figure, non solo durante i primi anni di vita del bambino, ma anche lungo la sua crescita, almeno fino all’adolescenza. Il tutto come possibilità incentivata, se non addirittura come vero e proprio obbligo.
Procedere in questo modo dal lato legislativo, con il necessario accompagnamento di una lenta ma decisa evoluzione anche dal lato culturale del concetto moderno di maternità e paternità, porterebbe con sé conseguenze poderose, proprio in coerenza con la funzione etica della legge. Dal lato maschile-paterno, oltre ad assecondare la metamorfosi che ha trasformato i padri da soli breadwinner che erano a genitori che, pur non perdendo la propria normatività, sono capaci di affettività ed empatie profondissime, una normazione del genere responsabilizzerebbe il lato maschile rispetto all’evento della genitorialità. Ovvero gli uomini che intendessero dedicare anima e corpo al lavoro e alla carriera saprebbero che la nascita di un figlio li impegnerebbe rispetto a un cambiamento dei propri piani professionali, obbligandoli a ottemperare ai doveri di cura e presenza cui il bambino che egli ha voluto concordemente (si auspica) con la propria compagna ha diritto. L’atto procreativo verrebbe così attentamente ponderato, di stretto concerto con la parte materna, andando a rafforzare il legame unitario della famiglia. L’esperienza di anni di ricerche e analisi sull’argomento mi fa dire che la stragrande maggioranza degli uomini accoglierebbe un siffatto tipo di obbligo con immenso favore.
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I cambiamenti dal lato materno sarebbero ugualmente dirompenti, profondi e, in buona misura anche critici. Le donne si troverebbero a dover condividere fin dal principio un ruolo tradizionalmente (si può dire ormai: anticamente) ad esse attribuito, e qui più che mai la maturazione culturale giocherebbe un ruolo cruciale. Superato l’ostacolo, però, esse avrebbero davanti a sé le opportunità che reclamano da tempo: quelle di poter contemperare genitorialità e lavoro. Con un marito-padre al proprio fianco assieme al quale l’atto procreativo è stato ponderato, e che garantisce una presenza di cura pratica e affettiva efficacemente surrogante rispetto a quella materna, ogni donna avrebbe aperte davanti a sé strade di evoluzione professionale prima precluse. E’ solo in un’ottica familiare, ovvero di collaborazione paritaria in costanza di relazione, che si supera la dicotomia tra maternità e lavoro o carriera e si pongono le basi per una normalizzazione successiva, in caso di separazione, imperniata sul diritto del minore alla bigenitorialità. Anche in questo caso si può prevedere che il mondo femminile vedrebbe con favore un’opportunità di questo tipo.
Vero è che uno schema di questo genere, dove la bigenitorialità viene imposta già ex ante, fin dalla nascita del figlio, farebbe emergere contraddizioni potenti per la parte femminile. Le stesse contraddizioni su cui oggi l’ideologismo femminista impernia buona parte delle proprie recriminazioni. Perché sapendo fin dal principio di non essere “condannate” a una vita professionale di medio-basso livello, con conseguenti svantaggi reddituali, a causa della futura maternità (se desiderata, ovviamente…), le donne sarebbero chiamate ad assumere scelte radicalmente diverse da quelle assunte finora. Questo perché, è chiaro, l’obiezione a un sistema come quello sopra prefigurato è: “le donne hanno stipendi più bassi, quindi il marito periodicamente a casa a badare al figlio mentre la moglie lavora rappresenterebbe un impoverimento della famiglia”. Un’obiezione corretta fin tanto che si fa riferimento al sistema vigente, che induce le donne a scelte di vita sacrificanti dal lato professionale. Con l’obbligo di cura paritario per padre e madre, il mondo femminile sarebbe invece chiamato a cambiare le proprie scelte individuali nel percorso di studi che precede l’attività professionale e nella gestione della stessa.
Il divario salariale, si sa, non esiste nei termini con cui viene propagandato. Esso deriva da scelte al ribasso in termini formativi da parte delle donne e, una volta avuto accesso al mondo del lavoro, a scelte poco redditizie nella gestione del proprio lavoro (opzione del part-time, indisponibilità a lavori più rischiosi e meglio pagati, o a straordinari, o a reperibilità oltre l’orario di lavoro, eccetera). Scelte in genere dettate proprio dalla programmazione o realizzazione di un progetto genitoriale la cui gestione un sistema antico mette impropriamente su spalle soprattutto femminili. Una riforma a monte, oltre che a valle, del Diritto di Famiglia metterebbe le donne sul banco di prova, dunque. Mentre infatti generazioni di uomini da tempo si sono adattate e sono desiderose e pronte ad assumersi la responsabilità di quell’area ibrida che li chiama ad essere normativi ma anche soggetti di cura ed empatia (nonostante il sistema frustri terribilmente tale aspirazione), c’è da capire quanto le donne siano davvero pronte a un sistema che promuova a tutti gli effetti la loro emancipazione inducendole a scelte di vita diverse da quelle tradizionalmente assunte.
Il sistema vigente induce le donne a scelte di vita sacrificanti dal lato professionale.
Solo in un quadro del genere, dove uomini-padri e donne-madri sono parificati fin dall’inizio dell’evento genitoriale, prenderebbero senso gli incentivi alle studentesse che si iscrivono a facoltà universitarie scientifiche o all’imprenditorialità femminile o all’assunzione di personale femminile che, con il sistema attuale, sono invece meri privilegi. Solo in un quadro del genere le vere cause del divario salariale di genere complessivo (ossia quello improprio usualmente utilizzato a fini propagandistici) verrebbero affrontate e risolte, ponendo le basi non solo di un’effettiva attuazione del principio sacrosanto del mantenimento diretto in caso di separazione, ma addirittura cancellando il termine dal lessico separativo. Perché cambiamenti come quelli delineati nei paragrafi precedenti delineano la realizzazione di famiglie costituite da genitori parimenti realizzati dal lato professionale, dunque auspicabilmente con redditi paragonabili, e parimenti impegnati nella gestione della prole fin dal principio, rendendo del tutto normale se non automatico il rispetto del diritto del minore ad avere sempre due genitori, sia che essi stiano assieme, sia che si separino.
Non è forse questa elaborazione un punto d’incontro sensato tra le forze che ora si contrappongono rispetto all’ipotesi di una riforma delle separazioni e degli affidi? Io credo di sì. Certo implicherebbe significativi investimenti dello Stato nel welfare familiare, ma le risorse ci sono: basta sottrarle a tutto l’apparato attualmente costruito attorno alla necessità di fomentare il conflitto di coppia per alimentare un mercato non di rado dell’orrore o privo di fondamento (case-famiglia, affidi, centri antiviolenza). Non ci sarebbe migliore destinazione dei molti soldi appannaggio del capitolo “pari opportunità” che quella per il sostegno alla bigenitorialità in costanza di relazione di coppia. Non ci sarebbe reazione più razionale ed efficace agli eventi di “Bibbiano”. Non meno importante, in questo modo il tanto parlare che si fa di “politiche per la famiglia” troverebbe così una concretizzazione reale.
In questo senso, credo che proseguire sulla strada della riforma non sia sbagliato. Come detto, è un intervento parziale, ma non errato. Diventa deleterio se lasciato da solo, se rimane un intervento isolato e se non lo si inscrive in un piano organico di revisione generale della materia che dovrebbe intervenire a impostare sul piano delle leggi la nuova conformazione familiare del futuro. Una conformazione che nei fatti esiste già da tempo, sebbene frustrata da un sistema complessivo arretrato, e che va regolamentato nella sua totalità, in un’ottica di concordia tra uomini e donne orientata al futuro. I tentativi di riformare il Diritto di Famiglia oggi sono dunque ottimali perché rompono gli indugi su una materia che non può più attendere. Essi segnano la via ma, per non diventare materia di inutile scontro ideologico sulla pelle dei bambini, devono provvedere affinché, come spesso capita, non si resti in mezzo al guado.
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