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Un articolo apparso sul sito di sociologia “Public discourse” a firma Scott Yenor, professore di Scienze Politiche alla Boise State University dell’Idaho, svela una volta di più la natura malata e virale delle ricerche scientifiche che si producono nelle università occidentali, americane in particolare, e della battaglia feroce che sul campo del debunking scientifico si sta cercando di fare per frenare il dilagare di concetti inquinanti, asserviti a una visione specifica delle società e del mondo. Il punto di partenza è uno studio del 2014 elaborato dal professor Mark Hatzenbuehler, medico sociologo alla Columbia University, autore principale di una ricerca intitolata: “Lo stigma culturale e la causa globale della mortalità nelle popolazioni appartenenti a minoranze sessuali“, pubblicato nel giornale Social Science & Medicine. Lo studio sostiene che le minoranze sessuali, come gli omosessuali, hanno un’aspettativa di vita molto più bassa (circa di vent’anni) rispetto al resto della popolazione perché tali minoranze vivono in comunità con alti livelli di pregiudizio anti-gay.
Lo studio del professore della Columbia ha avuto una grande risonanza nei media e si è affermato a tal punto da venire utilizzato come prova durante una causa tra la Commissione per i Diritti Umani dello stato del Colorado e una società di panificazione, accusata di discriminare la minoranza LGBTQ. Sottoposta al procedimento scientifico del peer-review (quando altri studiosi esaminano e sottopongono a critica e verifica gli studi altrui), la teoria di Hatzenbuehler però poi si è sbriciolata miseramente. La rivista Social Science & Medicine ha dovuto pubblicare una correzione, per poi ritirare del tutto il contributo. Non poteva fare diversamente: i severi procedimenti di verifica avevano sentenziato che lo studio in questione era un crimine contro l’onestà accademica. Ed è il pullulare di elaborazioni del genere che sta facendo perdere sempre di più la fiducia degli americani (e non solo) nell’istruzione e nella ricerca universitaria.
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Eppure studi di questo tipo dilagano, se ne producono a tonnellate, che sempre più riescono a passare indenni attraverso complessi peer-review. Questo accade perché anche i “pari” chiamati a criticare le elaborazioni altrui, quando si tratta di tematiche sensibili, quali appunto gli orientamenti sessuali o le questioni di genere, sentono la pressione di dover dimostrare prioritariamente di non essere loro stessi dalla “parte sbagliata”. La loro revisione tende a non puntare più prioritariamente alla verifica delle tesi e del metodo scientifico adottati dal collega, ma a dimostrare di non essere discriminatori, razzisti, sessisti eccetera. Per non sbagliare, anzi, quasi sempre assecondano l’infondatezza delle ricerche mostrandosi favorevoli a “vendicare” le minoranze oppresse, così pilotando le loro review su parametri molto più indulgenti. E’ una doppia violenza: verso il metodo del controllo incrociato, che è poi ciò che garantisce l’affermarsi delle ricerche migliori rispetto a quelle inaccettabili, e verso la sostanza delle ricerche stesse.
Sono questi deficit a determinare il diffondersi di idee di fatto inaccettabili, perché scientificamente deboli, quando non insostenibili, su tematiche di grande importanza quali la contraccezione, l’aborto, le relazioni di genere, le minoranze sessuali o razziali. Tutte tematiche che oggi vanno a comporre quel quadro di politicamente corretto che inquina il discorso e il confronto pubblico, da un lato, e che dall’altro dettano iniziative politiche smaccatamente discriminatorie verso chi non fa parte di specifiche minoranze definite forzosamente “deboli” da questo tipo di studi. Ciò che sorprende è la loro costante diffusione e il radicamento nella cultura dominante, sebbene un gran numero di essi sia soggetto a un altissimo tasso di ritiri post-pubblicazione. Ciò che rivela l’articolo di Scott Yenor è che in ambito accademico, negli USA e in occidente, si sta svolgendo una sorta di grande guerra tra mostruosità della ricerca e veri e propri “ghostbusters”, studiosi seri che tentano eroicamente di fermare la fiumana di concetti pseudo-scientifici piegati al politicamente corretto, cercando di catturarli, smentirli e archiviarli nel dimenticatoio.
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La testimonianza di Yenor è accorata, parla di un lavoro che richiede sforzi titanici, essenzialmente per due motivi. Gran parte degli studi farlocchi che si pongono alla base del distruttivo politicamente corretto fanno un uso spregiudicato dei dati, delle induzioni dai dati, diffondendo “stime delle stime”, che in quanto tali non hanno alcun valore scientifico. Sul piano metodologico sono talmente inconsistenti che dovrebbero venire ritirati già alla prima occhiata critica. Ma contro questa ipotesi tali ricerche si premuniscono a dovere, adottando un’esposizione che sollecita i sensi di colpa di chi viene chiamato a revisionarli, talvolta, e più spesso la paura. Le dimensioni della falsificazione accademica sono diventate totalitarie, dunque rilevare gravi difetti di metodo in una ricerca che sostenga, ad esempio, la discriminazione femminile nelle legislazioni pubbliche, espone lo studioso critico all’immediata accusa di sessismo (o in altri casi di razzismo, omofobia, fascismo, eccetera). Un’accusa che in talune circostanze, se pompata a dovere, può comportare la fine di intere carriere. E il nostro professore Alessandro Strumia lo sa bene.
Che poi queste ricerche siano alla base del nuovo stream delle proposte politiche delle varie sinistre di diversi paesi occidentali, aggrava ancora di più la situazione. Di fatto ci sono studi privi di fondamento, prodotti a valanga, difficilmente contenuti da onesti e coraggiosi peer-review, che vengono assunti come base scientifica per politiche discriminatorie. Ovvero che accettano il concetto di una sussistente discriminazione, che in realtà non c’è, per affermare una contro-discriminazione, eufemisticamente definita come “positiva”. Le “quote rosa” sono un esempio tipico di questo genere di decisioni, ma anche il doppio standard che favorisce le donne e criminalizza gli uomini nei media o nei tribunali ne è un portato diretto. Il contributo di Yenor svela una volta di più una realtà dura da accettare: il nemico della verità è grande e potentissimo, ha invaso i gangli principali delle società, annientando l’istituzione famiglia, quella che fornisce la prima formazione, e inquinando le falde dell’istruzione superiore. Non è un buon motivo per cedere e smettere di sbugiardare nel quotidiano le falsificazioni e le storture che ne derivano, ma è indubbio che un ritorno alla normalità debba passare da uno scatto d’orgoglio e di coraggio da parte degli studiosi seri, quei pochi che ancora sopravvivono nell’accademia totalitaria contemporanea del politicamente corretto e del socialmente distruttivo.
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