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di Anna Poli – “Oggi ci siamo dipinti la faccia con i colori dell’arcobaleno per festeggiare il gay pride. Viva l’amore!”. Recita così il cartellone appeso all’interno dell’asilo nido Meridiana di Casalecchio di Reno, dove si sta tenendo il centro estivo per bambini da zero a cinque anni. Se qualcuno mi avesse chiesto di dare una definizione di apoteosi concettuale del politicamente corretto, state pur certi che fino a qualche giorno fa avrei risposto: un baby gay pride party dentro a un asilo nido. Prendi l’ingrediente principale che è sempre l’amore universale, lo colori con l’arcobaleno, gli piazzi un sorriso profondo, lo porti a una festa da ballo e la festa la organizzi dentro a una scatola di bambini che hanno ancora il pannolino. Geniale tripudio del nuovo nazional-popolare! E tutti vivono felici e contenti.
Eppure capita un fatto. Capita che una cinquina sprovveduta di educatrici di professione, entusiaste e motivate a far saltare anche le ultime misere barriere di senso e di identità rimaste, si mettono d’accordo e attuano l’apologia del qualunquismo, sinceramente persuase dall’idea che ciò non potrà che rendere il mondo un mondo migliore. La bomba scoppia, tutti insorgono nel disappunto generale e la cinquina in evidente stato di shock non può fare altro che silenziarsi in un angolo leccandosi le ferite e spremendosi le meningi per capire che cosa cavolo sia successo.
Il troppo ha stroppiato, mia cara cinquina. Passi l’essere gay, passi l’orgoglio manifesto e manifestato relativo all’essere gay, passi anche che andiamo festeggiando tutta questa emorragia di orgoglio gay assieme ai gay, ma poi basta! C’è un limite a tutto, anche allo strabordìo di perbenismo. Senza contare un dettaglio concettuale non irrilevante che non ha minimamente impegnato (ma avrebbe dovuto) la fervida organizzazione rose e fiori del lieto evento, e cioè che non esiste bambino di quattro anni in grado di poter consapevolmente manifestare il proprio orgoglio verso qualsiasi cosa, tanto meno verso l’essere gay. Esiste però un buon senso educativo, quello che avrebbe dovuto essere chiamato a collaborare in sede di pianificazione. Un buon senso che ci dice che se vogliamo insegnare a un bambino a provare un giorno orgoglio (facciamo rispetto?) verso qualcosa che non gli appartiene (sul manifestarlo soprassiedo), il modo migliore è insegnargli prima a provare orgoglio verso ciò che invece gli appartiene eccome. L’essere un bambino, per esempio. E in virtù di questo ignaro, inconsapevole, condizionabile e con il sacrosanto diritto di associare i colori dell’arcobaleno alle cose concrete del mondo, tipo una mela, una palla, una cacca. Per i concetti è presto, troppo presto.
Di certo non la pensa come me la referente regionale delle famiglie arcobaleno Elisa Dal Molin che in un’intervista su Repubblica ha proclamato a gran voce: “Non è mai troppo presto per abituare i bambini alla diversità” e, non contenta di quell’unica eresia, prontamente gliene ha accodate un altro paio: “credo che le educatrici abbiano fatto bene a cogliere la palla al balzo e voler introdurre con la scusa del pride la tematica delle tante famiglie. Il tema non è l’omosessualità, ma l’omofobia”. Proprio no, Elisa Dal Molin: il tema non è l’omofobia, il tema è l’accettazione. Quando ci è stato chiesto il consenso per passare dall’accettare tutti all’accettare tutto? L’incompetenza sul lavoro, per esempio. O la confusione più totale tra ciò che appartiene indiscutibilmente al proprio sistema di convinzioni individuali e ciò che invece abbraccia una progettualità rivolta a un gruppo, dunque svincolata in essenza dai propri credo.
Guarda caso, nonostante la frattura netta tra favorevoli entusiasti e contrari indignati, un sottile fil rouge si è dipanato inspiegabilmente tra le righe di praticamente tutte le maggiori testate giornalistiche, una parola che suona come un ritornello: “leggerezza”. “Le ragazze hanno preso la cosa con un po’ di leggerezza”, “è stata una leggerezza”, addirittura c’è chi titola “leggerezza, indagine interna”. Se non sapessi che stiamo parlando di un gay pride under-5 penserei che l’argomento in questione sia il Philadelphia. Litri di leggerezza spruzzata a piccole dosi come l’Amuchina dai dispenser dei bagni pubblici. E anche l’odore è lo stesso. Puzza di sterile. La leggerezza non è mica l’attenuante, la leggerezza è l’aggravante! Ancora una volta la retorica giornalistica sancisce il golpe degli assi cartesiani, per cui i poli di giusto e sbagliato si confondono in una nebbia di retorica che avvolge tutto e il contrario di tutto. Eccolo lì, un bel dio (che scende) dalla macchina per risolvere il misfatto. La leggerezza è il detersivo più innocuo che i nostri amati media, colti alla sprovvista, sono riusciti a trovare per lavare il pavimento dopo che qualcuno ha pensato bene di vomitare quello che proprio loro gli avevano propinato a pranzo.
La forbice dell’adeguamento sociale ha le lame spalancate, talmente aperte che rischiamo di non vederle più e di dimenticarcene. Eppure nel mezzo di quelle lame ci siamo noi, noi e i piccoli futuri noi, quelli che si divertono sempre a fare una festa piena di colori, che giocano sempre volentieri a truccarsi la faccia. Gli stessi che però non hanno alcuno strumento per capirne i significati, se dietro a questi giochi si decide di nasconderne uno. E allora, prima di dichiarare il coma irreversibile del senso critico, poniamoci almeno una domanda che non è né di destra né di sinistra, ma che ha a che fare con i nostri bambini: quando si sceglie di insegnare la diversità festeggiando l’orgoglio omosessuale si sta rispettando la gradualità dell’imparare, conditio sine qua non dell’educazione? Se la risposta è no allora ciò che è stato fatto è sbagliato. Che è il contrario di giusto e il sinonimo di sconsiderato. Se poi è stato anche fatto con leggerezza, allora una tale inconsistenza di testa merita davvero di comparire nel curriculum delle cinque signorine. Alla voce “incolla qui la tua foto”.
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