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di Alessio Deluca – Tra i nostri avversari non ci sono solo le femministe che riversano la loro bile a reti unificate contro migliaia di uomini impegnati a svolgere con fatica il loro ruolo di mariti e padri, attraverso un’indegna propaganda che definisce l’intero genere maschile violento per natura, stupratore e assassino. I tempi ci impongono di lottare non solo contro questa menzogna istituzionalizzata e ben orchestrata da mass-media cui non frega nulla della verità, ma moltissimo dei click e degli introiti che ne derivano. Altri avversari stanno in mezzo a noi. In primis gli uomini violenti, quei pochi ma veri. Un solo vigliacco che faccia violenza a una donna oltre all’atto criminale, arma il nemico, gonfia la vela del risentimento ideologico che ha costante bisogno di ragioni e tragedie per esistere, autogiustificarsi e incassare. Basta un solo delitto per renderci tutti attaccabili dalla propaganda. Sia dunque nostro dovere assistere, parlare e dedicare tempo a chiunque, amico o familiare, sia in crisi o in via di separazione conflittuale, si torni a esercitare un controllo sociale su chi può trovarsi in condizioni di disperazione tali da considerare come percorribili strade estreme.
C’è poi un altro avversario ben più subdolo: l’uomo femminista, quello che sposa la causa del pentimento, dell’ammissione di colpa, del proprio fallimento in quanto uomo, che si accoda al refrain della donna “migliore in tutto” rispetto a un uomo, attitudine a volte paracula per fare breccia in qualche ristretta cerchia di signore. E spesso è lo stesso che vorrebbe aperti i tutti porti e i confini, attivo sostenitore delle famiglie arcobaleno, insomma un artefice della dissoluzione della nostra cultura, che sponsorizza con macabro entusiasmo come se essa avesse prodotto solo disastri e non invece (anche) il più alto patrimonio di cultura e civiltà del genere umano. Entrambi sono espressioni della crisi di identità maschile che attraversa i nostri tempi. Il primo non sapendo controllare i propri istinti, il secondo non avendo il fegato di costruirsi e poi difendere una identità.
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Questa “crisi” ha infinite e complesse ragioni. Uno dei guai degli uomini odierni è che faticano a essere all’altezza degli uomini chi li hanno preceduti. In nessun campo si riesce a eguagliare la grandezza delle opere del passato, che siano politiche, filosofiche, artistiche. Perché? È un difetto di fabbrica? No. Il punto è che quelle opere erano frutto di un ritmo del pensiero e capacità di approfondimento e concentrazione che nel mondo di oggi iper-connesso e iper-distratto non sono semplicemente più possibili né comprensibili nella loro qualità. Difficilmente qualcuno, per quanto dotato di talento, potrà eguagliare la prosa di Dostoevskij o fare un assolo di chitarra come Jimi Hendrix. Si è verificato uno sganciamento da quei riferimenti, e ci si trova tutti costretti a essere pionieri di una condizione sociale e mentale nuova, nella quale ambientarci pur portandoci addosso (e solo noi uomini) il peso di un impietoso confronto. Bene: sarebbe il caso di recuperare l’orgoglio del nostro percorso, recuperando con orgoglio ciò che gli uomini hanno fatto e creato di grande e straordinario nei secoli, quasi sempre avendo a fianco una donna o ispirandosi ad essa.
Il secondo handicap che grava sugli uomini di oggi riguarda il primato assoluto del denaro su qualsiasi altro valore. Tradizionalmente abbiamo sempre vissuto in contesti in cui ciascuno era chiamato a dimostrare le proprie doti e a guadagnarsi il rispetto sul campo, con passaggi obbligati e spesso duri. Ciò rinsaldava le capacità, l’orgoglio di misurarsi e riuscire. Il riconoscimento sociale del carattere, e non del patrimonio, era la prima ambizione maschile. Il primato universale del denaro ne ha tolto ogni traccia. Cosicché oggi un perfetto imbecille che abbia denaro, magari ereditato o perché frutto di qualsiasi operazione commerciale di infimo livello ma redditizia, avrà più valore sociale di una persona integra e con altre aspirazioni. Dobbiamo recuperare impulsi di generosità, di azioni dettate dal disinteresse, dal senso civico, dalla voglia di costruire il futuro. E insieme a noi dovrebbero farlo le donne, inquinate come gli uomini, forse ormai anche più degli uomini, dall’equazione denaro, ricchezza e consumo uguale valore.
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Ma il primo e più arduo passo per uscire da questa impasse che ci fa apparire come pugili suonati in balia degli eventi è uno. Nessun miglioramento si concretizzerà se l’uomo rinuncerà a tutta o parte della propria identità e dignità sulla spinta di mere pulsioni sessuali, se continuerà a farsi zerbino e umiliarsi pur di ottenere attenzione da un certo tipo di donne, andandole a elemosinare come un mendicante, e spesso fallendo miseramente e se non capirà che siamo proprio noi ad alimentarne la vanità e la prosopopea cui assistiamo quotidianamente, con le nostre continue richieste, il più delle volte sbeffeggiate e derise (“ogni uomo che incontro è un passo verso il convento”, dicono le neo-emancipate). I più consapevoli tra noi hanno già preso le misure e le distanze. A queste donne fiere della propria autonomia, ipersessualizzate (e proporzionalmente prive di grazia), vezzeggiate dalla pubblicità, preda di un delirio narcisista da social network, i più evoluti hanno smesso di dare l’ulteriore gratificazione del corteggiamento vecchio stampo.
Non è più tempo. L’uomo dovrebbe ora e per un tempo indefinito dedicarsi a una profonda revisione di se stesso e delle proprie abitudini. Dovrebbe migliorare in tutte le proprie qualità, faticare e disciplinarsi, studiare e sperimentare, fino a diventare col tempo caso mai lui appetibile per le donne e non viceversa. Finché non avverrà su larga scala questa rivoluzione copernicana del valore e del desiderio, l’uomo continuerà a essere uno zimbello umiliato e deriso nel quotidiano, e quel che è peggio, a più alto livello, massacrato da chi ha fatto dell’odio anti-maschile una ragione di vita. Come diceva Ernest Junger nel trattato del ribelle, bisogna passare “al bosco”, affrontare un percorso “aspro e periglioso”, ma è urgente ritrovare le nostre radici, per attuare un miglioramento netto e autodeterminato, da attuare per noi e per i nostri figli.
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