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Immaginiamo di assistere alle Olimpiadi. Sta per iniziare la finale dei cento metri. Gli atleti si dispongono ai blocchi di partenza. Due di loro, non si capisce il perché, partono da blocchi posizionati un metro avanti rispetto agli altri. Se accadesse, la folla si alzerebbe e protesterebbe a viva voce. Semplicemente non sarebbe giusto. Ora immaginiamo che i blocchi siano tutti nello stesso punto: tutti i competitori partono dalla stessa linea. Sparo, partenza, arrivo e classifica. Sul grande display dello stadio però i nomi dell’oro, argento e bronzo non corrispondono ai primi tre che hanno tagliato il traguardo. Mormorii increduli e proteste dal pubblico. Uno speaker spiega dagli altoparlanti che nuove regole riservano uno dei primi tre posti a un atleta con gli occhi azzurri e a uno a un atleta che porti la barba, anche a costo di ripescarli dagli eliminati delle fasi precedenti. L’intero stadio si solleverebbe: anche in questo caso sarebbe un’ingiustizia inaccettabile. Ebbene, il primo caso descrive una violazione di quella che viene definita uguaglianza delle opportunità, il secondo rappresenta quella che viene definita uguaglianza degli esiti.
L’uguaglianza delle opportunità pone sullo stesso piano tutti gli individui, lasciando che ognuno di essi esprima le proprie capacità e i propri talenti, la propria inclinazione a rinnovarsi e formarsi per ottenere risultati coerenti con le proprie aspirazioni. E’ uno scenario win-win, come si dice in termini scientifici, ovvero dove tutti hanno da guadagnare: sia l’individuo, che ha nell’ampia scelta di opportunità la possibilità di esprimere se stesso secondo le proprie proclività, sia la comunità, che sarà così composta di persone capaci di dare il meglio di sé, di mettere in campo competenze di eccellenza, come tali strumento di miglioramento e progresso collettivo. Ed è anche uno scenario protetto. L’uguaglianza delle opportunità tendenzialmente premia chi si impegna e chi merita, rendendo la vita difficile a chi cerca scorciatoie, a chi pretende privilegi immeritati, a chi usa pratiche illegali (corruzione, mercificazione di sé) per raggiungere obiettivi che non è in grado di raggiungere con le proprie capacità. L’ampia scelta di opportunità e una piena uguaglianza di accesso ad esse, insomma è dal punto di vista socio-economico una chiave di progresso, se inserita in un contesto gerarchico, come sempre accade in organizzazioni fondate su valori condivisi (e l’organizzazione umana non fa eccezione).
L’idea sottesa all’uguaglianza degli esiti ha invece una logica differente. Essendo la comunità umana composta di individui differenziati tra di loro da una serie di caratteristiche, è giusto garantire a tutti l’accesso a qualsivoglia posizione, nel rispetto delle e proporzionalmente alle varie diversità. Il presupposto è che l’accesso agli esiti sia un diritto universale non dipendente da talenti e meriti, ma discenda direttamente dal complesso puzzle che compone il quadro sociale generale. Il presupposto organizzativo invece è che non esista (e se esiste vada combattuta) struttura gerarchica sulle cui pendici arrampicarsi in termini competitivi attraverso la messa in gioco dei talenti, delle inclinazioni e della competenza individuale. Tutti fattori troppo facilmente inquinabili da anomalie tipicamente umane quali la corruzione, il nepotismo, le preferenze di vario tipo (sessuali, etniche, di genere, religiose e così via). Anomalie troppo radicate e diffuse per garantire che il sistema contrapposto, quello dell’uguaglianza delle opportunità, possa funzionare a dovere. C’è una visione pessimistica di fondo alla proposta di un’uguaglianza degli esiti: il sistema è pensato apposta per tenere fuori alcuni individui e mandare avanti altri. Dunque è necessario imporre una forma di bilanciamento forzando un’uguaglianza negli esiti.
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Le differenze tra le due visioni sono radicali e inconciliabili, lo si capisce chiaramente. La prima, per sua stessa costituzione, richiede che obiettivi, traguardi e posizioni vengano definiti con precisione, così come i requisiti richiesti per raggiungerli o accedervi, ed è coerente con la competitività già presente in natura (oltre che nei correnti sistemi economici). La seconda comporta una totale assenza di requisiti e si basa essenzialmente su fattori numerici legati alla presenza di questa o quella caratteristica tipica di un gruppo di individui. Le conseguenze sono chiare: l’uguaglianza delle opportunità è antidiscriminatoria, pacifica e unificante. Non importa chi sei, da dove vieni, cosa pensi o chi preghi: quando parti sei uguale agli altri. Se saprai meritartelo, arriverai primo o tra i primi, altrimenti resterai indietro, là dove le tue capacità e le tue competenze ti posizionano e dove puoi rendere al massimo delle tue possibilità. Difficile, faticoso, ma è così (esattamente com’è la vita). L’uguaglianza degli esiti è invece discriminatoria, conflittuale e divisiva. Individua minoranze che hanno diritto all’uguaglianza degli esiti, a prescindere da ogni merito, e così induce le comunità a polarizzare le proprie appartenenze, a dividersi in tribù, ognuna reclamante il proprio diritto a un posto al sole. Storicamente non c’è nulla più della polarizzazione o della tribalizzazione della società a generare tensioni, conflitti, guerre.
Le due visioni si sono sempre confrontate e scontrate, nelle loro diverse declinazioni filosofiche, politiche, culturali e sociali, e nella tensione dialettica tra di esse è risieduto il potenziale espresso per il progresso delle società. Ciò a cui assistiamo oggi, tuttavia, è un potenziamento poderoso delle istanze legate all’uguaglianza degli esiti, costituitasi, sulla scia di un neo-marxismo moderno e degenerato, in ideologia strutturata e rassicurante. Un’ideologia che, partendo dalle università anglosassoni, ha fatto presa sulla sinistra in pressoché tutte le sue articolazioni, dilagando e facendosi narrazione comune. Come tale è giunta a lambire anche buona parte dei gruppi liberali e dei regolatori apicali delle società (magistratura, amministrazioni), anche grazie alla spinta potentissima data dai media di massa, che trovano in quella versione dei fatti un aggancio estremamente redditizio. Il dilagare delle istanze favorevoli all’uguaglianza negli esiti, che si armonizzano perfettamente con la vulgata del politicamente corretto e della cultura del piagnisteo, rappresenta un vero e proprio pericolo per le comunità. Per motivi che è facile comprendere con qualche esempio.
Le “quote rosa”, ad esempio, sono concettualmente il prototipo di uguaglianza degli esiti. Ovunque si applichino, esse rappresentano una forzatura che sottende logiche distruttive. Come la percentuale di invalidi che è obbligatorio per le aziende assumere oltre un certo numero di dipendenti, per garantire a chi è fattualmente impedito o ostacolato dalla propria situazione a svolgere un lavoro, così il concetto di quote rosa attribuisce implicitamente alle donne un carattere di inabilità, derivato non da fatti (come è uno stato di disabilità), ma dalla presunta, perché ideologicamente affermata, oppressione patita in passato, in un contesto di indimostrabile patriarcato oppressivo. Un simile processo coinvolge non solo le donne, ma anche altre sotto-comunità: gli omosessuali o le lesbiche, i transessuali, le persone di colore negli USA, in Italia gli extracomunitari in generale, e altri. L’effetto immediato è di innescare una corsa alla divisione e al riconoscimento come “minoranza un tempo oppressa”, tale da consentire il passaggio all’incasso negli esiti, a prescindere da meriti e competenze. La scelta delle minoranze “meritevoli” rimane però del tutto arbitraria, soggetta al capriccio di pochi ideologi, opinion leader o di alcune lobby, che includono alcuni escludendo altri. Se il parametro è la passata oppressione, non si comprende perché non dovrebbero esserci anche quote di David per gli ebrei, quote di Manitù per i nativi americani, quote armene, e così via. L’arbitrarietà che alcuni si arrogano nella scelta delle minoranze un tempo oppresse e ora da premiare negli esiti è un ulteriore strumento di avvelenamento dei pozzi del pacifico e corretto vivere comunitario.
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Come risultati si hanno infatti la polarizzazione, la tribalizzazione e dunque la guerra permanente. Mai come in questo tempo, prendendo il tema che sta più a cuore a questo blog, il rapporto tra uomini e donne è stato così conflittuale come oggi, in Italia a un livello che per altro impressiona gli osservatori esteri. Non solo: il prevalere di questa ideologia, definibile come neo-femminismo quale branca di dettaglio di un più generico neo-marxismo moderno e degenerato, non ha più l’obiettivo, come in passato, di bilanciare gli aspetti gerarchici tipici delle organizzazioni umane fondate sui valori, curandosi di massimizzare l’inclusione nella piramide, o per lo meno di minimizzarne gli effetti esclusivi attraverso un rapporto dialettico. L’obiettivo è scardinare la logica gerarchica, cui sono legati i concetti di uguaglianza delle opportunità e valorizzazione delle competenze. L’obiettivo è appiattire la piramide fino a farne scomparire l’apice, in un processo disgregativo da cui alla fine nessuno, tranne pochi, trarranno vantaggio, con il caro prezzo della demolizione degli equilibri sociali. Recuperando la retorica femminista, la copertura è bell’e pronta, facile facile da spiegare ed elementare da capire per chi non ha strumenti di riflessione adeguati: le donne sono il 50% della popolazione, dunque hanno diritto al 50% degli accessi in esito alle diverse posizioni, nel nome di un’uguaglianza che è dovere del sistema garantire. Non molto tempo fa Michela Murgia su questa base reclamava la presenza di donne opinioniste sulla prima pagina dei maggiori quotidiani nazionali. La rivendicazione era sul numero (appunto: “dato che le donne sono il 50% della popolazione…”), non sulla base della competenza o della capacità di elaborare contenuti interessanti, con ciò per altro sminuendo volgarmente quelli prodotti da altri giornalisti di sesso maschile.
Il paradosso di tutto questo è che, applicando rigorosamente i dettami dell’uguaglianza negli esiti, si ottengono risultati esattamente opposti a quelli attesi: non maggiore ma minore uguaglianza. Il nord Europa si è prestato a farsi laboratorio in questo senso. In Scandinavia l’uguaglianza negli esiti, così come altre mostruosità, sono da tempo legge dello Stato. Comprimendo le differenze culturali tra uomini e donne, quelle norme hanno spinto al massimo, come compensazione, le differenze biologiche. Ad esempio non ci sono altre aree in Europa o in occidente dove le donne siano meno presenti nelle facoltà universitarie tecnico-scientifiche che in Scandinavia; in nessun paese europeo il tasso di violenze, stupri e abusi nei confronti delle donne è alto come in Danimarca, Svezia e Finlandia. Lo schiacciamento delle società in un’uguaglianza coatta degli esiti ha esacerbato le differenze, invece che attenuarle, in quelle che sono considerate patrie (anzi “matrie”) dell’ideologia neo-femminista concretamente messa in atto. A dimostrazione ulteriore che le teorie marxiste e i loro derivati, una volta messi in pratica, determinano mostruosità, come se l’Unione Sovietica e l’est europeo non fossero storicamente bastati a provarlo. Alla luce di questo, è chiaro come oggi, per la stessa preservazione degli equilibri sociali che hanno portato al progresso, pur con mille difficoltà, tornare a combattere unitamente per un’uguaglianza delle opportunità sia un dovere. E le prime a sentire questo dovere, ragionamenti e numeri alla mano, dovrebbero essere, per il loro stesso interesse, proprio le donne, che dovrebbero aborrire e combattere strenuamente il concetto di uguaglianza forzata degli esiti propugnata dal neo-femminismo radicale. Per questo chiunque abbia una coscienza civica, storica, culturale e politica oggi non può non dirsi anti-femminista.
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