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di Anna Poli (infiltrata all’Assemblea Nazionale di “Non una di meno”) – Il 6 e il 7 ottobre 2018 si è tenuta a Bologna l’Assemblea Nazionale di “Non una di meno”, nell’ambito della quale è stato indetto lo “stato di agitazione permanente fino all’8 marzo”. Ora, lungi da me voler fare ironia di fronte a una siffatta atmosfera grave, e capisco anche che, nel turbinio di tutta quella concitazione, l’attenzione a ciò che si dice (o che si indice) possa perdersi nel vortice dell’eccitazione, però, questo stato vibratorio di agitazione o si decide che è permanente o si decide che è fino all’8 marzo. Ad ogni modo, indirlo era totalmente superfluo: “Non una di meno” non conosce stati di non agitazione, dunque sarebbe bastato dire “continuiamo a fare quello che facciamo sempre e cioè sclerare per qualunque cosa almeno fino all’8 marzo” e si sarebbe capito benissimo il concetto. Non a caso, nel verbale dell’assemblea, si dice “mai come ora, ostinatamente, saremo in piazza e non ci faremo fermare” dove “mai come ora” e “ostinatamente” sono entrambe scelte lessicali contro ogni aspettativa calzanti. Si dice ostinata, infatti, quella “persona che persiste con caparbia tenacia in un atteggiamento, in un proposito, nelle sue idee o opinioni, spesso nonostante l’evidenza contraria”. Mai come ora, ahimè.
Nel corso dell’assemblea si è toccata una miliardata di punti tutti più o meno in linea con lo stato di burrasca indetto e auspicato. Vediamo di riassumere i principali. “Non accettiamo che siano maschi, padroni e tribunali a stabilire quali siano i casi speciali che meritano la concessione di un permesso di soggiorno” dicono le femministe. Ci tengo a non entrare nel merito della questione perché sarebbe fuori tema, ma comincio col dire che l’ultima volta che ho sentito parlare di padroni ero al liceo e il discorso se ne stava lì bello bello stampato su un libro di storia. Ad ogni modo, che le femministe non amino i maschi lo si era capito, dunque che non accettino che né loro né i padroni (ma di cosa stiamo parlando? Chi sono i padroni? I politici? Azzardo ma non so…) stabiliscano qualcosa è un po’ poco sensato, ma tutto sommato ce ne faremo una ragione. Quello che non mi spiego, invece, è come sia venuto loro in mente di tirare in ballo i tribunali, dato che oggi, ma mi auguro ancora per lungo tempo (auspico un tempo molto più permanente dell’8 marzo), l’essere una manica di donne arrabbiate non esonera dal dover sottostare alle decisioni della giustizia, indipendentemente dal fatto che esse piacciano o no. Ma qualcosa mi dice che anche in questo caso sia semplicemente volata una parola a casaccio supportata da tutto quel bailamme di agitazione scomposta andante. Con moto.
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Un punto interessante riguarda lo sciopero femminista. “Non esiste una definizione o un modello di sciopero femminista” dicono “poiché esso rompe i modelli. Non riguarda solo la produzione, anche se non abbiamo mai rinunciato ad entrare nei luoghi di lavoro, ma riguarda anche il lavoro riproduttivo e la riproduzione di tutta la società, perché sciopero significa rifiutare i ruoli e le posizioni che ci vengono imposti”. Ma veramente lo hanno detto? Non solo: lo hanno anche scritto. Queste sono le nuove madri? Quelle che di fronte ad un governo che non fa quello che vogliono loro, si mettono a fare lo sciopero della procreazione? Questa frase, schiaffata lì come una medaglia al valore, porta con sé una violenza inaudita, è bassa, spregevole, abietta, vergognosa. E dà la reale misura di quello che queste donne (che non sono le donne, ma solo un gruppo pingue di uomini venuti malissimo) hanno capito dell’essere genitori. Niente. Il genitore si fa in due. I figli non sono di chi li caccia fuori. La madre non ha più diritti di un padre sull’esistenza di un bambino. E di certo, nessuna donna ha il diritto di minacciare scioperi dell’utero. Detto ciò, mi auguro che lo facciano, questo indecente sciopero. Come regalo alla società. E le ringrazio per aver finalmente ammesso senza troppi giri di parole quanto per loro un figlio sia monetizzabile, quanto sia merce di scambio e di ricatto e quanto valore abbia la maternità per le femministe.
Poste le premesse di cui sopra, ditemi su quali basi dovrei mai pensare di dar loro minimamente credito nel momento in cui decidono di mobilitarsi contro un disegno di legge che fa della bigenitorialità la sua bandiera e che, naturalmente, esse dicono essere “l’espressione più evidente della volontà di penalizzare le donne”. Eccerto! Non hanno mica torto! Chiedere alle madri di fare i genitori insieme ai padri è altamente penalizzante, secondo la testa di chi pensa di poter ricattare il governo dicendo “se non mi dai quello che voglio, smetto di fare figli”. Personalmente, sono indignata ma anche un po’ basita. E’ una specie di incubo in cui si palesa il riflesso macrocosmico del “se non fai come dico io, non te la do”. Questa sì che è roba medievale! Credere che un organo genitale prima e un figlio poi (un figlio, mica un sasso!) possano essere strumenti di tortura e di ricatto. Non che non si sapesse che i figli vengono abitualmente utilizzati da alcune madri come arma di ricatto nei confronti dei padri, ma di certo non era mai avvenuto che queste madri lo dichiarassero con tale leggerezza, sventolandolo quasi come un emblema di potere e mobilitazione.
Il ddl 735 “intruduce un concetto di bigenitorialità secondo cui il bambino viene diviso a metà come fosse un bene”, dicono ancora, e con notevole coraggio. Le stesse che con orgoglio e spocchia indicono “scioperi del lavoro riproduttivo” e che, in altre parole, fanno della riproduzione una merce di contrattazione e di ricatto, vorrebbero davvero sostenere che chi incoraggia la bigenitorialità stia trattando il bambino come fosse un bene? Ma questa è un’apologia dell’incoerenza! Il disegno di legge non introduce un bel niente. La bigenitorialità è l’essenza stessa del fare il genitore. E se questo tanto decantato stato di agitazione semipermanente verterà su queste criticità, dovrebbero solo vergognarsi. Tutte, non una di meno. E vergognarsi in modo permanente, non fino all’8 marzo.
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