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[Attenzione: questo articolo molto probabilmente irriterà e offenderà alcune persone. A costo di essere impopolare, tuttavia, ritengo fondamentale anteporre i fatti alla tutela della sensibilità individuale di qualcuno]
La questione di Collovati ha una e una sola chiave di lettura: in un contesto di intrattenimento e non di serio approfondimento, il campione ha espresso un concetto riprovevole e inelegante e per questo è stato sospeso per due settimane. In un contesto ugualmente intrattenitivo, sempre per la stessa emittente (RAI), Finocchiaro e Dandini hanno pesantemente insultato gli uomini e i padri, in un frangente che non aveva nulla di comico o satirico, ottenendo solo un richiamo formale. Dunque il punto è il doppio standard: guanto di velluto per donne che insultano gli uomini, pugno di ferro per l’uomo che dice una sciocchezza sulle donne. Fine della storia e vergogna assoluta per la RAI “del cambiamento” (in peggio) di Marcello Foa. Tutto ciò che sta a contorno di questo punto chiave è un complesso e intricato racconto di fantascienza, che diventa comprensibile grazie proprio a ciò che ha detto Collovati. Il quale ha avuto torto a pronunciare quella frase, ha fatto male. Ma ha detto la verità. Vediamo perché.
Tra le tante caratteristiche che identificano lo sport, una in particolare va messa in luce. Nel confronto agonistico, contro i propri stessi limiti o contro un avversario, vige la regola aurea: vince il migliore. Uno sport è tale se garantisce il rispetto ferreo di questa legge, ovvero se le sue regole fondamentali sono concepite appositamente per far prevalere il migliore. Nella pallavolo vince la squadra che ha la meglio per almeno tre set, ogni volta arrivando prima dell’avversario al venticinquesimo punto, con uno scarto di almeno due punti. Una faticaccia che solo il migliore riesce a sostenere. Così funziona anche nel tennis, nel basket e in altre discipline sportive. Esattamente come nella vita, devi essere allenato, psicologicamente solido, determinato e assertivo per vincere. E se vinci, sei il migliore: le regole stesse fanno in modo che tu emerga e chi non è all’altezza soccomba.
I processi stessi di uno sport vero sono concepiti per far sì che alla fine il vincitore sia il migliore. Nel tennis, e non solo, si procede con i più bravi che via via “fanno fuori” i meno bravi, operando una selezione su su per la piramide, e alla fine del processo si ha lo scontro Nadal-Federer, da cui scaturirà il migliore della stagione. Non può materialmente capitare il miracolo per cui un brocco arrivi in cima alla piramide a confrontarsi con un campione. Non solo: negli sport così concepiti, le performance richieste a squadre e atleti sono talmente alte e impegnative che nessun arbitro, pur volendo barare (magari perché corrotto), potrebbe davvero influenzare gli esiti. In un match di pallavolo dove il migliore deve realizzare complessivamente 75 punti, l’arbitro potrà rubarne, se è sfacciato, cinque o sei prima di rischiare il linciaggio o il deferimento. E cinque o sei sono nulla su 75. Se poi si pensa ai punteggi a tre cifre del basket o del rugby, ancora meno.
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Ebbene, il calcio, sotto questi punti di vista non è uno sport. Non garantisce che sia il migliore a vincere. Anzi, dà ampie garanzie al peggiore di poterla sfangare. Una stortura assicurata dalle sue stesse regole. Una squadra così brava da lanciare il proprio attaccante a rete viene penalizzata se costui è dietro la linea dei difensori quando l’assist parte (fuorigioco). Perché? Qual è il senso di questa regola? Oppure: un giocatore viene atterrato in area di rigore e il penalty conseguente è un tiro in porta con il portiere presente. Perché? Che senso ha questa regola (nel basket, in casi simili, si hanno i “tiri liberi”)? Ancora: una squadra è così brava da attuare un contropiede fulminante, l’ultimo difensore disponibile attacca il portatore di palla e lo atterra. Risultato? Calcio di punizione, con la squadra che ha commesso fallo che può riposizionarsi completamente e comodamente in difesa, ribaltando la situazione svantaggiosa che c’era prima che commettesse il fallo. Cos’è, un premio per aver commesso una scorrettezza? Esattamente. Questi esempi, come molti altri che si potrebbero fare presi direttamente dal regolamento del calcio, se comparati con le regole di altri sport mostrano come tutto venga concepito per ostacolare l’emergere del migliore e avvantaggiare il peggiore o chi si comporta scorrettamente (figure queste ultime che spesso si sovrappongono).
Non è un caso. Il calcio è stato creato fondendo alcuni sport storicamente esistenti. A metterlo a punto è stato il popolo più incline di altri alla scommessa: gli inglesi. E a questo serve il calcio: ad aumentare l’alea del risultato, rendendo molto difficile azzeccare l’esito di un match. Uno scenario perfetto per i bookmaker e i fanatici delle scommesse. Anche perché i risultati delle partite di calcio molto raramente hanno scarti di più di due punti: 1 – 1, 2 – 0, 3 – 2. Capitano di rado i 5 – 0 o i 6 – 2 e così via. Questo rende un intervento scorretto dell’arbitro (voluto o meno che sia) determinante per rovesciare le sorti di una partita. Basta un rigore al novantesimo per trasformare una sconfitta in un pareggio o un pareggio in vittoria (ho letto che giusto ieri in una partita dell’Inter se n’è avuta chiara prova). Una specie di invito alla corruzione degli arbitri, ma soprattutto una stortura che viene venduta dalla retorica calcistica come “la dura legge del gol”. In realtà è tutto voluto, tutto scritto nelle regole, a partire dal fatto che la palla vada governata coi piedi (e non essendo primati è cosa estremamente disagevole), per favorire al massimo la non prevedibilità del risultato, la pratica delle scommesse e la popolarità di quello che così viene erroneamente definito “sport”.
Che è popolare proprio perché, a differenza di altri, dà una sottintesa speranza ai perdenti. Chi nella propria vita non vorrebbe un rigore al novantesimo, magari simulando la caduta in area o giovandosi di un arbitro compiacente? Per ottenerlo non serve essere allenati o mettere in campo una tecnica superiore all’avversario, basta essere astuti e sperare nella fortuna. Poniamo che chi mi sta attaccando nella vita (un competitore al lavoro, un rivale in amore, eccetera) sia di fronte a me, palla al piede, e stia andando a rete: sarebbe meraviglioso se semplicemente atterrandolo avessi poi l’occasione di riorganizzarmi comodamente in difesa, invece di farmi il mazzo a rincorrerlo per rubargli regolarmente la palla con qualche mossa tecnica di alto livello, che magari non sono capace di fare. Chi ama visceralmente il calcio e lo considera sport è colui che non accetta uno degli aspetti più ardui dell’esistenza: la competizione e la competenza necessaria per vincerla. E’ colui che preferisce sperare nella dura, ingiusta e antisportiva “legge del gol” per farla franca, pur essendo incompetente, impreparato, dunque per sua natura destinato a perdere. Da qui la spiegazione dell’apprezzamento di massa per il calcio.
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Un’attività agonistica che più che uno sport può per i motivi sopra descritti essere definito un’attività di intrattenimento di carattere gladiatorio. Sul calcio si scommette, come gli antichi romani scommettevano sui gladiatori. Oggi come allora la competizione ammette scorrettezze e può essere in balia di un arbitro capriccioso che alza o abbassa il pollice. Oggi come allora, e contrariamente a quasi tutti gli sport veri, è un’attività di contatto, dove la fisicità e l’aggressività contano in modo determinante dato che contribuiscono ad aumentare le possibilità del peggiore di tenere testa e magari vincere sul migliore. Anche per questo il calcio è stato esercitato da sempre da uomini e gli uomini si sentono depositari quasi esclusivi del tifo calcistico, relegando le donne a tifosi di serie B. Quell’attività gladiatoria attiene ad aspetti fisici e psicologici prettamente maschili. Sono gli uomini quelli maggiormente sotto pressione dal lato sociale rispetto alla necessità di affermazione e successo: l’idea che esista qualcosa che consenta di raggiungerli pur non meritandolo appieno è normale che sia attrattiva soprattutto per loro. Che possa essere necessario il confronto fisico per ottenere di farla franca, al di là di ogni regola di giustizia, è di nuovo tipicamente maschile, dall’alba dei tempi.
Dunque di fatto ha ragione Collovati. E nell’aver ragione ha torto. Ha ragione che sia innaturale e stonato che donne si interessino a un tipo di intrattenimento costruito attorno alla psicologia e alla fisicità maschile, fino a pretendere di avere la stessa considerazione e attenzione quando lo esercitano. Non a caso calcio, boxe e altri sport tipicamente maschili nelle loro versioni femminili sono più fenomeni curiosi (e non di rado sgradevoli da guardare) che altro, come lo è stato Giorgio Minisini, primo uomo a fare agonismo nel nuoto sincronizzato, disciplina tipicamente femminile per la grazia e l’armonia dei movimenti tecnici che richiede. Però Collovati ha anche torto quando dice che le donne non possono capirsene di tattica calcistica. Semplicemente perché la tattica calcistica non esiste. Che tattica puoi mai adottare in un confronto dove le regole penalizzano il migliore? Uomini e donne possono disquisire quanto vogliono di 4-4-2 o 3-5-2 o del 5-5-5 di Oronzo Canà: è tutta aria fritta, nel momento in cui le regole rendono più vantaggioso ad esempio commettere fallo che confrontarsi tecnicamente. E di aria fritta è titolato a parlare chiunque, uomo o donna che sia.
Al di sotto di tutto questo intreccio fantascientifico e di fatti ardui da accettare, c’è infine un elemento che non va trascurato. Fino a non molti anni fa l’idea di un calcio, una boxe, una lotta libera femminili era inconcepibile, avrebbe fatto comprensibilmente ridere i nostri padri e i nostri nonni. Oggi è diventato terreno minato del politicamente corretto, per estrema difesa del diritto delle donne non di essere se stesse ed eccellenze assolute laddove il proprio status fisico e psicologico le può rendere campionesse assolute, ma di andare a competere e contendere, per un innaturale senso di inferiorità, lo status maschile, cercando di emularlo laddove difficilmente può o dove dovrebbe evitare di emularlo, come per l’appunto in quel finto sport per perdenti che è il calcio. Tutta la faccenda che parte dalla frase infelice di Collovati, scavando a fondo, mostra dunque tutta la contraddizione di quel femminismo che ritiene parità consentire alle donne di fare tutto ciò che fa l’uomo, anche quando si tratta di questioni poco commendevoli. E che in quanto tale non è parità ma uno scimmiottare goffo e degradante. Dati i fatti messi in ordine fino a qui, le donne dovrebbero sentirsi fiere di non essere degli assi nel calcio e di non capirci niente di tattica. E dovrebbero dunque essere grate a Collovati per averlo detto senza peli sulla lingua.
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