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Una delle critiche più frequentemente avanzate a una parte del Patto per l’equità e la giustizia, di cui mi sono fatto convinto divulgatore, riguarda la sua parte finale, dedicata alle iniziative per contenere e magari eliminare la piaga delle false accuse utilizzate come base per talune denunce e querele, che a quel punto diventano infondate e false esse stesse. La critica solitamente non si indirizza al previsto meccanismo della condanna automatica per calunnia a carico dell’accusatore che utilizzi falsi argomenti per inguaiare qualcuno, bensì sul meccanismo che nel patto viene chiamato, per renderlo più comprensibile, “cauzione”.
Sintetizzando: il dilagare delle false accuse è generato dall’assenza di qualunque barriera o garanzia nell’accesso al deposito di una querela, di alcune in particolare. La Magistratura ha sviluppato un buon fiuto, in questo senso: abbiamo visto di recente che il 90% delle denunce per violenza domestica o stalking viene archiviato o termina con assoluzioni (fonte ISTAT), e non è improbabile che questo accada perché sono basate su false accuse o su pretesti. Se si rilevassero i dati sugli altri tipi di denunce (a partire da quella per violenza sessuale, la cui falsificazione è sempre in auge, a quanto pare ora anche oltre i limiti della logica e dell’età…), la statistica sarebbe confermata. Quella dei giudici però è un’attività a valle, quando un procedimento è arrivato al termine, dopo aver impegnato interi apparati, aver spennato a dovere l’accusato e averlo magari umiliato e calunniato. L’idea è di porre una barriera a monte, e l’unico meccanismo pensabile è quello di un impegno economico a carico del querelante, chiamiamolo appunto “cauzione”.
Si tratta di una somma di denaro che chi querela deve impegnare al momento del deposito della querela stessa. Se il procedimento gli darà ragione, la cifra gli verrà restituita, se verrà dimostrato che si trattava di false accuse, oltre alla condanna automatica per calunnia, lo Stato trattiene la cifra impegnata, a copertura delle spese sostenute dagli apparati pubblici coinvolti. In questo modo farà querela solo chi sa di avere in mano elementi tali da poter dimostrare di essere stato danneggiato: oltre a una certa sicurezza di veder riconosciuto in tribunale il proprio danno, sarà anche certo di vedersi restituita la cifra impegnata. Di contro, il falso accusatore saprà che, se scoperto, rischia una condanna per calunnia ma anche di perdere la cifra impegnata. Ciò forse non cancellerà il fenomeno delle false denunce, ma sicuramente le arginerà in modo netto. Come faccio a esserne sicuro? E soprattutto cosa rispondere a coloro che ritengono anticostituzionale un siffatto meccanismo?
Prendiamo due esempi tratti dai fatti reali. Il primo riguarda l’Agenzia delle Entrate. Uno dei suoi compiti è scovare gli evasori fiscali. Se funziona correttamente, dunque, garantisce allo Stato un aumento delle entrate. Oltre ai controlli disposti dall’Agenzia stessa, le verifiche possono partire anche a seguito di denunce presentate dai cittadini. Fino al 2012 è stato possibile presentare esposti in forma anonima. L’esito era un profluvio di denunce, fatte per vendetta, gelosia, dispetto o altro, che all’atto pratico poi risultavano infondate, ma che intanto impegnavano l’apparato dell’Agenzia (che così, per altro, faceva fioccare multe per inezie a carico di operatori sostanzialmente incolpevoli, giusto per poter portare qualcosa a casa). Ovvero erano spese per lo Stato a fronte di poche o nessuna entrata. Eliminata la possibilità di denuncia anonima, gli esposti all’Agenzia delle Entrate sono diminuiti del 90%. Quei pochi che arrivano sono tutti più o meno fondati, dunque gli ispettori lavorano in modo produttivo e garantiscono maggiori entrate per lo Stato dal recupero dell’evasione operata da evasori veri.
Altro esempio: la sanità. Questa rappresenta un’uscita finanziaria per lo Stato, che dunque ha interesse a contenerla, tentando di mantenere buono il livello dei servizi. Il problema è che, nel corso del tempo, gli italiani hanno utilizzato i medici di base (e questi si sono lasciati utilizzare) come “richiestificio” per farsi il carico di farmaci o per fare esami diagnostici talvolta non del tutto necessari. La spesa sanitaria così, per lo Stato e per le Regioni, è andata fuori controllo. Una prima iniziativa per contenere il fenomeno è stata quella dei “ticket”: il cittadino deve contribuire. Una gabella odiosa, che porta dissenso politico molto forte, visto che di mezzo c’è la salute delle persone. Così è nata un’altra idea: è stato creato un database centrale informatizzato a cui i medici devono collegarsi quando vogliono rilasciare una richiesta. Linee guida cogenti hanno messo sotto pressione i medici stessi, che ora sono sotto stretto controllo: se prescrivono troppi farmaci o troppi esami diagnostici, vengono redarguiti e possono anche finire nei guai. Capito perché quando andate dal vostro medico e denunciate un malanno ultimamente vi prescrive un periodo di riposo o qualche integratore (che non comportano il rilascio di una richiesta)?
Nel primo caso abbiamo, di fronte all’irresponsabilità dei cittadini, una limitazione del diritto alla denuncia. O la faccio mettendoci la faccia o niente. Nel secondo caso si fa perno su uno degli elementi della filiera sanitaria per contenere un altro “viziaccio” dei cittadini (non parlo qui della qualità del servizio sanitario pubblico, degli intrecci anomali con il comparto privato, non è quello che mi interessa qui). Sono due precedenti non da poco: per efficientare due servizi pubblici contro comportamenti devianti dei cittadini si sono prese iniziative della cui costituzionalità nessuno ha mai dubitato. Domanda: non è forse quello della giustizia un altro settore pubblico? Non è minato forse da sacche di inefficienza terrificanti, dato che hanno a che fare con una delle basi della democrazia, ossia la certezza del diritto?
La risposta è sì. Ma rimane lo scoglio costituzionale: non è accettabile subordinare la libertà di presentare una querela al versamento di una somma di denaro. Perché? Perché a quel punto solo i ricchi potrebbero sporgere querela. Tutto giusto, ma un’attenta lettura del Patto per l’equità e la giustizia in realtà dà una soluzione semplice ed efficace, che non preclude a nessuno l’accesso alla querela. Si dice infatti che se una persona non può permettersi la “cauzione”, sarà lo Stato a garantire al suo posto. Che possa permetterselo o no potrà essere facilmente definito dall’ISEE, il cosiddetto “redditometro”, da tararsi specificamente su questa situazione. Chi dunque non ha le risorse, potrà tranquillamente sporgere querela: pagherà lo Stato la sua “cauzione”. Essendo questa da concepirsi non come “cauzione” tipicamente intesa, ma come un’imposta, in caso di impossibilità a liquidarla, il querelante verrà considerato temporaneamente esente. Se però alla fine del procedimento salta fuori che c’erano di mezzo delle false accuse, lo Stato potrà esigere il versamento dell’imposta e rivalersi sul querelante, riprendendosi ciò per cui si era fatto garante.
Dunque non c’è alcuna barriera all’accesso alla querela, nulla di incostituzionale. Il meccanismo può apparire complicato, ma di fatto non lo è se si configura tutto dal lato fiscale. Se il querelante non sta cercando di abusare di una norma, tutto andrà liscio, e l’imposta gli verrà restituita in fase di dichiarazione dei redditi. Se si scopre che stava barando e ha utilizzato scorrettamente la garanzia dello Stato, lo Stato stesso si riprenderà ciò che gli spetta, sempre in fase di dichiarazione dei redditi. Procedimenti specifici di restituzione andranno ovviamente previsti per chi si trova in condizioni di esenzione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi, ma si tratta di un problema minuto.
Si chiederà: lo Stato dove prende le risorse per coprire le cauzioni? Facile: da due lati. Il primo è l’efficientamento dell’apparato giudiziario. I costi connessi a quel 90% di denunce archiviate o finite in assoluzione per inconsistenza della denuncia stessa verrebbero meno. Un risparmio per lo Stato in termini di risorse probabilimente incalcolabile, senza contare che a quel punto i processi, quelli veri e fondati, metterebbero il turbo. Un dettaglio non da poco visto che molte aziende non investono in Italia proprio per le sue lentezze giudiziarie.
Secondo: se a queste economie si aggiungono migliori e più utili allocazioni delle risorse oggi pressoché inutilmente riservate a centri antiviolenza e case rifugio (come abbiamo visto qui e qui, ad esempio), le risorse di fatto ci sono. Inserendo il tutto in un quadro normativo dove non è prioritaria la necessità di dirimere un conflitto fra adulti (magari coniugi in separazione), ma quella di tutelare il minore sotto ogni aspetto, esattamente come il Patto per l’equità e la giustizia pianifica di fare, si otterrebbero contemporaneamente un efficientamento degli apparati, economie per le casse dello Stato ma, soprattutto, un’affermazione decisa dello Stato di Diritto senza che la Carta Costituzionale ne abbia a patire.
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