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Rapporto “ombra”. Così viene chiamato, con una terminologia truce che non fa nulla per nascondere la natura lobbistica del documento, la relazione che D.I.Re. ha preparato a fine 2018 come monitoraggio dell’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Ho disegnato ieri la mappa del potere fasciofemminista: agenzie informali come appunto D.I.Re. inviano a soggetti istituzionali come GREVIO relazioni che poi, tramite la propria “casa madre” (Consiglio d’Europa), ne ufficializzano i contenuti restituendo agli stati firmatari della Convenzione raccomandazioni, direttive, pressioni di ogni genere. Come nel riciclaggio i “soldi sporchi” vengono ripuliti investendoli in attività legali, così gli sporchi interessi di gruppi di potere informali diventano istanze istituzionali ripulendosi dentro la lavatrice di organizzazioni sovranazionali. Gli sporchi interessi, diventati così legittime istanze, sono usati poi dagli stati nazionali e dai loro governi come ispirazione, pretesto e giustificazione per politiche pro-donne potentemente discriminatorie verso chiunque, uomini in primis, e per alimentare le lobby che le hanno ispirate.
Il “rapporto ombra” di D.I.Re., presentato il 26 febbraio scorso a Roma, detta la linea a GREVIO in vista della sua “ispezione” all’Italia, poi avvenuta dall’11 al 21 marzo scorso. Per gli stomaci forti è disponibile una versione integrale della relazione (80 pagine, qui), per chi non ce la fa è disponibile anche una sintesi (4 pagine, qui). Nell’uno e nell’altro caso la prima parola che viene in mente dopo la lettura, che è poi la cifra stessa dei contenuti elaborati da D.I.Re., è sfacciataggine. Che è poi ciò che serve per continuare a esigere privilegi in presenza di sbilanci già enormi, oltre che per diffondere versioni della realtà totalmente prive di prove e dunque anche di fondamento. Insieme alla sfacciataggine, l’altro filo rosso che congiunge tutte le parti del report è, ovviamente, la richiesta ossessiva di soldi (pubblici). Su tutta la relazione, poi, aleggia, come un demone divoratore, la sua figura… sì, proprio lui: Simone Pillon e il suo Disegno di Legge.
La cifra stessa dei contenuti elaborati da D.I.Re. è la sfacciataggine.
Diversamente dallo stesso report dell’anno precedente, infatti, tutte le istanze vengono descritte come a difesa delle donne “e dei figli/e”. Un’aggiunta quest’ultima non casuale. Si associa la difesa dei figli alla difesa delle donne, assumendo a priori che l’uomo/padre sia un pericolo anche per loro. Una furbata dialettica in realtà: mentre è facile e legittimo opporsi ad argomenti meramente pro-donne, con che coraggio si possono contestare argomenti pro-minori? Ma qua nessuno è fesso: è sufficiente un confronto con i report precedenti per rendersi conto che l’aggiunta è stata ispirata dalla necessità di attaccare il DDL 735. Una proposta di legge che, per quanto imperfetta, se approvata andrebbe a intaccare posizioni di potere e business giganteschi. Per leggere correttamente il report si deve quindi anzitutto disgiungere lo sposalizio forzato tra fasulle istanze pro-donne e i sacrosanti diritti dei minori. Sono due cose molto diverse, non di rado in pieno contrasto. D.I.Re. invece le mette insieme, facendo così un uso strumentale dei bambini e dei loro diritti, secondo una prassi usuale nel versante femminile. Separate le due questioni, la lettura del delirio può procedere.
L’Italia, secondo D.I.Re., è profondamente e radicalmente sessista, misogina, vittima di stereotipi di genere, tutti ma proprio tutti a danno delle donne. Da ogni punto di vista, si dice, la donna è svantaggiata e oppressa. Le leggi tentano di fare qualcosa, ma è una questione di mentalità che inquina tutto, dall’atteggiamento delle persone comuni fino all’approccio dei media. Si parlava appunto di sfacciataggine… Questo e altri blog sono ormai ricolmi all’inverosimile di esempi di doppio standard, dove le donne vengono vittimizzate o assolte a prescindere tanto quanto gli uomini vengono criminalizzati e condannati altrettanto a prescindere. Per non parlare di leggi, trattamenti dispari presso forze dell’ordine e tribunali. Alla faccia della misoginia, del sessismo anti-femminile e quant’altro. Quello ritratto nel report è già così un paese che non c’è.
Eppure D.I.Re. ha di che protestare per un dilagante sessismo misogino in Italia. Fino all’apoteosi, quando denuncia “il mancato riconoscimento della violenza nelle vicende delle separazioni e degli affidamenti, visite e custodie dei figli”. Come se il 90% di essi non fosse a favore delle madri, sotto le mentite spoglie dell’affido condiviso. Una distorsione ottenuta quasi sempre con l’arma penale delle denunce infondate, la “pallottola d’argento” per allontanare il padre dai figli. “Nei tribunali si sottovaluta la violenza assistita a favore della PAS”, scrive D.I.Re. senza vergogna. Fosse così non si capirebbe perché le rarissime volte che un tribunale riconosce il fenomeno dell’alienazione ci sia una standing ovation da parte delle varie associazioni di padri separati, quasi fossero davanti a un miracolo. I dati e i fatti parlano chiaro e, com’è usuale, dicono l’esatto opposto della realtà rappresentata da D.I.Re. nel suo documento a GREVIO.
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Si confermano poi le tematiche-chiave già in precedenza rilevate su queste pagine: D.I.Re. afferma come fondamentale entrare nelle scuole da un lato, e nei percorsi formativi degli operatori di giustizia dall’altro, per scardinare il sessismo anti-femminile che dilaga nel nostro paese. Un piano di conquista che non intende risparmiare nemmeno il linguaggio, laddove si auspica l’acquisizione di “una definizione esaustiva di femminicidio”, con ciò ammettendo che al momento non ne esiste una (ma dai?!). E poi soldi, soldi, soldi, ossessivamente soldi, per qualunque scopo, di qualunque forma, ma soldi. Per i centri antiviolenza e le case rifugio, per la formazione (= indottrinamento) nelle scuole e nei tribunali, ma anche per gli avvocati che operano con l’incostituzionale patrocinio grauito a favore delle donne (presunte) vittime di violenza, e ancora maggiori risarcimenti in sede civile per le vittime (in modo da acchiappare da esse percentuali più sostanziose). Che l’antiviolenza di professione fosse un gigantesco business non è una gran scoperta. In passato fonti dal campo femminile ne ammettevano la natura, e l’ossessione economica del documento D.I.Re. non è che una conferma.
Sul piano del diritto sostanziale le cose non vanno meglio. D.I.Re. richiede interventi severi contro le molestie sul posto di lavoro e contro la mutilazione dei genitali femminili. Sì, specifica proprio “femminili”, sebbene gli unici morti ad oggi notiziati in Italia per mutilazioni genitali siano stati bambini, persone di sesso maschile. Ma anche i percorsi di emersione dei casi di violenza sessuale andrebbero curati con più attenzione, si dice, magari con iter giudiziali più adeguati. Sotto sotto si intende: credere alle donne, anche senza prove. Di fatto il numero di false denunce di stupro rischia sempre più pericolosamente di pareggiare e superare quello delle denunce fondate, dunque l’appello al believe woman è essenziale. Sebbene non facciano parte della rete D.I.Re., si spezza poi una lancia, con la solita richiesta di soldi, anche per i centri per uomini “maltrattanti”, altro abominio dell’era contemporanea creato allo scopo di drenare soldi pubblici criminalizzando l’uomo.
Che l’antiviolenza di professione fosse un grande business non è una gran scoperta.
A mio avviso, però, la parte più interessante, perché più emblematica della pericolosità assoluta di queste linee programmatiche, è quella che riguarda i dati. Bisognerebbe, dice il report, che ospedali e servizi sociali strutturassero una base-dati condivisa dove registrare gli accessi per violenza, specificandone i dettagli. Credo che le pasionarie di D.I.Re. non immaginino che se davvero quella base-dati si facesse avrebbero pessime sorprese. Un’indagine informale fatta da me su quattro regioni dava una schiacciante preponderanza maschile nell’accesso all’assistenza sanitaria per aggressioni domestiche. Tuttavia ciò che sorprende è l’auspicio di una raccolta dati espresso da un soggetto che i dati li raccoglie sì, ma non li comunica. Gli accessi e gli andamenti dei casi gestiti dai centri antiviolenza, si sa, sono coperti da mistero e riserbo. Motivi di privacy, si dice, impongono di diffondere solo numeri complessivi, con nessuna certezza che non siano dati a casaccio, sovrastimati e non verificati da nessuno. Quella della privacy è però una sciocchezza, una scusa: i malati di tumore vengono conteggiati con precisione da enti riconosciuti o facenti parte dell’apparato statale, il tutto nel pieno rispetto della privacy dei malati stessi. Trattandosi di un fenomeno vero e di emergenza, su quel versante ci si è organizzati affinché i conteggi fossero controllati e asseverati. Si potrebbe fare tranquillamente anche per i centri antiviolenza, ma non si fa. Facile capirne il motivo: i casi reali risulterebbero pochissimi, e ancora meno quelli risolti positivamente grazie all’azione dei centri stessi. Sottoporli a un controllo terzo sarebbe pericolosissimo. Ne andrebbe della loro esistenza.
Ed ecco che con la scusa della privacy nulla si sa veramente degli accessi per reali casi di violenza. I numeri vengono dati dai centri antiviolenza in autocertificazione. E tutti dobbiamo starcene, comprese le istituzioni pubbliche. Non a caso si ribadisce nel rapporto “ombra”, come già in quello dell’anno precedente, il profondo risentimento verso la Regione Lombardia, che ha subordinato la concessione di fondi a processi di trasparenza sugli accessi. Orrore! Si tratta di “un problema specifico rispetto alla raccolta dati che stanno incontrando alcune ONG che vedono in pericolo il fondamentale rispetto dell’anonimato e della privacy delle donne a causa del condizionamento dell’erogazione fondi da parte di enti locali alla tracciabilità delle donne accolte”. Stato e Regioni diano soldi, insomma. E li diano alla cieca, senza fare troppe storie, e fidandosi dei dati trasmessi da soggetti con la forma giuridica dell’associazione, dunque sottratti a ogni controllo, obbligo di rendicontazione, controllo di gestione o bilancio. Si diceva della sfacciataggine…
Ebbene non ci sarebbe nulla di male nella faccia tosta di questi report, se si trattasse di un brogliaccio tra i tanti elaborati da organizzazioni fanatiche e deliranti, come se ne trovano ovunque sul web o a volantinare all’angolo delle strade. Profili di organizzazioni fondamentaliste islamiche, neonaziste, neofasciste, neocomuniste producono la stessa spazzatura quotidianamente che, ben che vada, viene letta da qualche adepto o fanatico, restando poi fortunatamente lettera morta. Quello che si è letto fin qui no. Per le connessioni di cui ho parlato ieri, questi deliri finalizzati al puro predominio e al consolidamento di interessi economici, pur se elaborato da agenzie informali che più informali non si può, arrivano sulle scrivanie di soggetti istituzionali sovranazionali. Lì vengono ritinteggiate e riproposte alle istituzioni nazionali sotto forma di raccomandazioni o direttive. Un cascame residuo di quelle istanze finisce poi per diventare legge (vedasi il “Codice rosso“) o per non diventarla (vedasi il DDL 735), e per determinare l’indirizzo dell’opinione pubblica e dei media.
Stato e Regioni diano soldi, insomma. E li diano alla cieca, senza fare troppe storie.
Di fatto non c’è nulla di impressionante nei contenuti del report D.I.Re.: fanno solo il loro mestiere per cercare di sopravvivere, anche a costo di falsità e mistificazioni. La vera anomalia sta nei legami con istituzioni nazionali e sovranazionali, e in quel meccanismo di snodo fondamentale che è la Convenzione di Istanbul. Anomala due volte: sia perché parla anche di violenza domestica, ivi comprendendo quella contro gli uomini, ma viene presentata come impegnativa solo per la violenza contro le donne; sia perché è diventato il meccanismo infernale per trasformare interessi di parte in politiche attive. Non è solo il femminismo suprematista e affarista il nemico da combattere, dunque. La vera rivoluzione, il primo bersaglio da abbattere, è proprio la Convenzione di Istanbul. E lo si può fare con un approccio soft, ovvero esigendo una sua applicazione paritaria (come dovrebbe essere), o con un approccio hard, ovvero dimostrando, numeri alla mano, che di essa non vi è alcun bisogno, per lo meno in Italia, che dunque dovrebbe ritirare la sua adesione, a norma di diritto internazionale. Uno vale l’altro, basta che qualcosa si faccia, se non si vuole andare incontro a un futuro distopico e oscuro, precisamente quello delineato dal “rapporto ombra” di D.I.Re. sull’applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul.
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