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Accade che un mio lettore, preso dall’entusiasmo, condivida sui social uno dei miei recenti articoli scettici sul fatto che la depressione post-parto possa in qualche modo giustificare l’infanticidio e fungere da attenuante, quando non da elemento scagionante, in sede penale. In breve viene attaccato da un branco di profili femminili, uno dei quali lo segnala per “incitazione all’odio”. Come esito viene letteralmente radiato da Facebook. Il suo IP è nella lista nera del social di Zuckerberg e ci rimarrà a vita. La vicenda mi ha molto impressionato, pur sapendo che i criteri della censura di Facebook rasentano la follia (sgozzamenti sì, donne che allattano no). Così mi sono sentito in dovere di approfondire un po’ l’argomento, sebbene mi interessi meno di zero, andando a compulsare ricerche scientifiche italiane ma soprattutto internazionali sul tema (citerò le fonti in fondo all’articolo). Obiettivo della mia ricerca era rispondere alla domanda: c’è una connessione tra depressione post-parto e infanticidio? Quanto è forte tale connessione?
In premessa, credo opportuno riassumere quali sono le caratteristiche peculiari della depressione post-parto, per come sono state condivise e riconosciute da tutta la comunità scientifica internazionale. L’evento del parto rappresenta sotto ogni profilo qualcosa di particolarmente impegnativo per la psiche e per il fisico. Dal primo punto di vista la donna deve affrontare un radicale cambio di ruolo, con l’assunzione di una responsabilità, quella di una nuova vita che essa stessa ha generato, che talvolta viene percepita come soverchiante. Dal secondo punto di vista, mentre il cambiamento degli equilibri ormonali durante la gravidanza è tutto sommato graduale, a parto avvenuto l’organismo corre a riadattare i meccanismi interni allo stato precedente, e questo può oggettivamente generare squilibri fisiologici che si riflettono sul comportamento.
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Numerosi studi effettuati su casi reali hanno portato ad affermare, in termini generali, che l’85% delle donne manifesta qualche tipo di disturbo dell’umore dopo il parto. Si tratta di squilibri lievi, che scompaiono col tempo, con una rapidità direttamente proporzionale al clima rassicurante che la persona trova attorno a sé. Solo una forbice tra il 15 e il 20% delle donne sviluppa sintomi più gravi collegati alla depressione o all’ansia. Tali sintomi si collegano a un generale quadro di insicurezza, timore di non saper assolvere al proprio nuovo ruolo o che il neonato sia malato o non sopravviva. Il tutto si manifesta attraverso una generale irritabilità, difficoltà di relazione col partner e i familiari, impazienza, pianti improvvisi, nervosismo, disturbi del sonno o alimentari, incapacità ad assolvere a semplici compiti quotidiani. Una donna insicura circondata da un ambiente poco protettivo o poco rassicurante sarà più probabile che manifesti questo tipo di disagio, che però tende a non comparire, o scomparire rapidamente, a fronte di un carattere solido e di un ambiente circostante supportivo.
Questo stato viene definito “baby blues” nei casi più lievi e “depressione post-partum” (DPP) nei casi più gravi. Non si registrano infanticidi in queste fasi: il disagio da DPP resta generalmente tutto interiore alla neo-madre, è tendenzialmente autoreferenziale e consente in ogni caso il perdurare di un controllo razionale del sé, così come la permanenza di sentimenti positivi nei confronti del bambino. In compenso il perdurare di una DPP, è stato dimostrato, infligge al neonato sofferenze che lasciano il segno oltre l’infanzia. La maggioranza dei bambini cresciuti con una madre affetta da DPP risulta avere più bassi punteggi di QI, è più iperattiva, distraibile e insicura, tende a mostrare ritardi nello sviluppo emozionale, difficoltà nelle interazioni sociali e un rallentamento nello sviluppo del linguaggio espressivo.
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La DPP però, in determinate circostanze legate alla personalità della donna, alla sua storia clinica e al contesto che la circonda, può degenerare in uno stato più grave, detta “psicosi puerperale”. Questa si verifica con un’incidenza dello 0,2% e si manifesta con sintomi piuttosto evidenti: allucinazioni visive e uditive associate a uno stato delirante e di tipo maniacale, totale incapacità di affrontare la vita quotidiana e di accudire il proprio bambino. Si tratta di casi in cui è necessario e spesso urgente l’intervento di uno psichiatra affinché vengano iniziate le terapie appropriate. Ed è questa la fase dove la razionalità perde ogni presa, la crisi diventa anche eteroreferenziale, cancellando la coscienza del vincolo di affettività verso l’esterno, qualunque esso sia, dal coniuge ai parenti, ai bambino.
In quest’ultimo stato gli esiti tragici che si possono avere sono due: l’infanticidio e/o il suicidio della neomamma. Le statistiche mostrano che il legame tra crisi post-parto e atti estremi è quasi inesistente. Uno studio menziona che su 4.000 donne monitorate solo 2 (0,05%) si sono suicidate, e studi successivi hanno confermato il rate, variabile fino a un massimo dello 0,1%. Stesse percentuali si hanno per l’infanticidio, nel 95% dei casi avvenuto in uno stato di psicosi puerperale grave: le percentuali di incidenza variano tra lo 0,07 e lo 0,1% dei casi. Sono queste cifre che rendono tutti gli studi, almeno quelli che ho letto (e ho scelto quelli più condivisi e citati), propensi a definire la connessione tra crisi post-parto e infanticidio o suicidio “uncommon”, cioè infrequente, inconsueto.
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Esistono numerosi studi che illustrano anche l’esito sperimentale di ricerche relative alla consequenzialità infanticidio-suicidio. Ne ho letto gli abstract e tutti paiono concordi nel negare l’automatismo infanticidio-suicidio materno. Mi sono risparmiato la loro lettura di dettaglio perché il mio obiettivo era un altro, e la risposta è già chiarissima: sul piano statistico-clinico è rarissimo che una donna in crisi post-partum, nella sua versione aggravata di psicosi puerperale, uccida il proprio bambino. Non solo: il rischio che accada, date le peculiarissime caratteristiche della psicosi puerperale, è molto prevedibile e prevenibile. Una neomamma che cominci a sentire voci, a delirare e ad assumere comportamenti maniacali è infatti piuttosto riconoscibile e come tale rapidamente “intercettabile”, al netto di condizioni di contesto molto particolari.
Al contrario, i casi di cronaca ci raccontano sempre di “fulmini a ciel sereno”, di mariti e parenti che osservano: “sembrava serena e tranquillissima”. Segno che probabilmente non di psicosi si trattava, tanto meno di crisi post-partum, ma di raptus dovuti ad altro: scatti d’ira per un pianto troppo prolungato, ripensamenti sulla scelta di procreare, nervosismo per il tempo assorbito dal neonato o altro. Omicidi volontari, insomma, o quanto meno preterintenzionali. Roba che, in ogni caso, destinerebbe la colpevole a guardare il cielo a strisce per un lungo periodo di tempo. A meno che, sebbene contro ogni statistica e ricerca scientifica, non si cali il jolly della depressione post-parto. A quel punto il giudice non osa, il marito se la beve (perché non vuole credere a verità alternative), i medici forensi assecondano dietro parcella, e l’infanticida, passato qualche tempo in reparto psichiatria, torna libera e riabilitata in libertà. Ma vallo a spiegare tutto questo a Mark Zuckerberg e ai suoi algoritmi o, peggio ancora, all’opinione pubblica che si informa alla fonte avvelenata dei media di massa.
Fonti:
- Suicide and filicide in postpartum psychosis
- Maternal filicide
- Post-partum psychiatric disorders
- An overview of filicide
- Depressione post-partum: valutazione clinica e medico-legale
- Infanticidio e figlicidio: una panoramica sullo stato attuale dell’arte
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