Questo blog ha interrotto le pubblicazioni il 14/09/2020, dopo 4 anni di attività.Le sue tematiche sono ora sviluppate da una nuova piattaforma:LA FIONDAhttps://www.lafionda.com |
<
Il caro amico Francesco Toesca, nell’articolo associato a questo, spiega in termini chiari e semplici quali siano i percorsi logici, etici e tecnici alla base delle due metodologie di gestione economica che si possono adottare in risposta al fabbisogno dei figli, quando i genitori sono separati. Già di per sé la sua analisi è esaustiva e conclusiva, ma forse c’è un aspetto che andrebbe approfondito, che è poi quello a cui i detrattori del mantenimento diretto si appigliano per dichiararne l’irrealizzabilità. Senza replicare riflessioni sull’incoerenza e la malafede già smascherata da Anna Poli martedì scorso, vorrei entrare nel concreto e svolgere un ragionamento parallelo a quello di Toesca, per integrarlo con una proposta concreta.
Partiamo dunque dall’obiezione principale: il mantenimento diretto è impossibile da attuare laddove uno dei due coniugi risulti disoccupato o in gravi difficoltà economiche. O meglio: si può attuare ma il genitore privo di lavoro risulterà per forza di cose (e sarà di fatto) meno accudente agli occhi dei figli. Occorrenza che può capitare di frequente, vista la crisi del mondo del lavoro, specie in determinate aree del paese. In situazioni di questo genere, quindi, c’è il rischio di replicare il meccanismo del genitore di serie A e genitore di serie B, con l’appartenenza alle due categorie alternative in dipendenza non più delle decisioni arbitrarie di un giudice, ma delle disponibilità economiche individuali. Per questo motivo, si dice, una forma di assegno perequativo da parte di chi è in condizioni economiche migliori, deve rimanere.
Ebbene, chi sostiene questo ha ragione al 99%. Sbaglia solo nella parte finale, ovvero nell’individuazione di chi dovrebbe eventualmente sopperire a uno stato di disoccupazione dovuto o a scelte personali (solitamente femminili, per poter accudire meglio la prole) o contingenti (stati di disoccupazione causa crisi, solitamente maschili). Rimane fermo un aspetto culturale a monte di tutto questo: se si decide di fare figli, la rinuncia alla propria carriera dev’essere fatta responsabilmente, ovvero sapendo che rischi si corrono in caso di separazione. Secondariamente, ancora più importante, lo Stato dovrebbe mettere a disposizione delle coppie istituti equi affinché entrambi possano sospendere o ridurre l’attività lavorativa per accudire la prole senza dover rinunciare a lavorare. Ora tutto è sbilanciato sulle spalle della donna, mentre la funzione accudente, fuori allattamento, può essere tranquillamente sostenuta al 50% da padre e madre. Chissà se ci si arriverà mai a questo salto quantico…
In sua attesa, occorre chiedersi se e quanto davvero lo Stato voglia porre il fanciullo al centro delle sue politiche e delle tutele dovute. Ipotizziamo che sia vigente l’affido paritario condiviso perfetto (50 e 50 dei tempi) e il mantenimento diretto. E’ chiaro che un figlio di separati che vive nell’agio con uno, in quanto occupato, e nel disagio con l’altro, in quanto disoccupato, patirà uno sbilanciamento molto grave, vivrà un vero e proprio stato di sofferenza e sperequazione. Dice: il genitore disoccupato dovrebbe “sbattersi” e trovarsi un lavoro. Certo, fosse facile… Deve provarci, su questo non ci piove, ma intanto come mantiene direttamente i figli quando è il suo turno, se non ha entrate? La risposta ordinaria è: con il contributo dell’ex coniuge. La mia risposta è invece: con il contributo dello Stato.
Non ci sono motivi per cui una persona debba finanziare un ex coniuge con cui non condivide più un percorso progettuale orientato alla prole. Il perché l’ha spiegato perfettamente Toesca. In compenso se uno dei due genitori è disoccupato o in gravi difficoltà a esercitare il mantenimento diretto, è responsabilità e dovere dello Stato assisterlo, sia per compensare la sua incapacità politica di garantire un’occupazione diffusa, sia appunto perché fa suo il principio di tutela prioritaria dei minori. Se insomma lo Stato intende davvero difendere i fanciulli e l’infanzia, è suo dovere occuparsi di chi, qualunque ne sia la causa, non è in condizioni di occuparsene. In altre parole, se non l’avete capito, sto dicendo proprio questo: l’assegno di mantenimento per i figli di separati dovrebbe pagarlo lo Stato al genitore che non è in grado di esercitare il mantenimento diretto.
Potrebbe essere un finanziamento diretto alla persona e a tempo, fintanto che non trova lavoro, magari con lo stesso meccanismo delle “chiamate” del collocamento: dopo tre offerte di lavoro rifiutate, fine del contributo. Meglio ancora potrebbero essere incentivi (sgravi fiscali) alle aziende che assumono persone separate, con figli e disoccupate. Anche in questo caso dovrebbe essere una misura a termine: la persona coinvolta dovrebbe, per avere l’impiego confermato, darsi da fare al lavoro e mostrare il proprio impegno, che sicuramente non mancherebbe dato che c’è in ballo il mantenimento dei figli. O ancora incentivi alla creazione d’impresa o punteggi aggiuntivi nei concorsi pubblici. Le misure di favore possibili sono tante. Il tutto ovviamente dovrebbe accompagnarsi a controlli capillari e severissimi, perché se si parla di disoccupazione e, ad esempio, si pongono gli occhi al meridione del paese, non è infrequente scoprire che l’impiego invece c’è. Sommerso, ma c’è.
Ma ehi… un attimo… paga lo Stato? Stasi si è rimbecillito? E dove li prende i soldi, lo Stato? Dico io: i soldi ci sono. Eccome se ci sono. Tiriamo giù due numeri: qual è il fabbisogno reale espresso da donne in difficoltà o vittime di violenza? Intendo quello reale, non i numeri gonfiati dalle organizzazioni che hanno interessi nel settore. Ora contiamo (e qui si può fare con maggiore precisione) quanti genitori separati e disoccupati con figli ci sono in Italia. Fatti questi conti, andiamo a vedere nel bilancio dello Stato quanti milioni di euro sono stati stanziati per centri antiviolenza, centri per uomini maltrattanti, telefoni rosa, associazioni para-bocciofile femministe assortite. Andiamo a vedere cosa fanno davvero, che valore aggiunto portano. Dovrebbero, in linea teorica, surrogare l’intervento dello Stato, che da solo non riesce a gestire questa immensa emergenza delle donne vittime di violenza ma…
Ma in realtà si sa benissimo che si tratta una bolla commerciale e politica. Le dimensioni del fenomeno sono in realtà così ridotte da poter essere agevolmente gestite da apparati pubblici con personale debitamente formato (ASL, forze dell’ordine, consultori, servizi sociali), togliendo l’osso dalla bocca di questa pletora di organizzazioni utili a nulla, se non a esacerbare conflitti, innescare inutili cause giudiziarie, fare politica (sebbene non sia nella loro mission) e drenare milioni di euro. Si toglierebbero insomma le risorse da un capitolo di spesa che ha una domanda artificiale e teorica, per riallocarli laddove la domanda è reale e assolutamente prioritaria, avendo come oggetto il benessere del minore di genitori separati. Lo Stato così ottempererebbe al suo dovere di assistenza sociale, senza delegarlo a una persona, l’altro coniuge separato che, in quanto tale, non ha e non deve avere titolarità a surrogare quell’assistenza.
In sostanza: una legge giusta su separazioni e affidi deve fondarsi sulla bigenitorialità perfetta, ossia su tempi di affido paritari e condivisi (50/50). Non c’è affido paritario se non c’è mantenimento diretto, e viceversa. Non c’è tutela dei minori se entrambi i genitori separati non sono messi in condizione di mantenere direttamente la prole quando è ad essi affidata. Un fabbisogno, quest’ultimo, di cui, coinvolgendo appunto i minori, deve farsi carico la comunità, come forma di investimento verso la stabilità affettiva ed economica di chi rappresenta, oggi, in nuce, ciò che sarà il paese in futuro. Non solo: il coniuge saprà che, separandosi, non finirà in rovina, perché conterà sul mantenimento diretto o, se disoccupato, avrà assistenza. Ci si può immaginare così quante e quali situazioni di conflitto di coppia verrebbero prevenute a monte, evitando che trascendano in situazioni tragiche, con ciò rendendo ancora più inutili iniziative repressive a valle o carrozzoni succhiasoldi come i centri antiviolenza e affini? Sarebbero innumerevoli. E lo Stato, anche da quel lato, ottempererebbe al suo dovere di prevenzione delle devianze sociali. Le risorse ci sono. Si tratta di capire se lo Stato ha più a cuore il business senza fondamento dei professionisti dell’antiviolenza in rosa, o i figli delle famiglie spezzate che possono trovarsi, in tutto o in parte, in difficoltà a mantenerli. Sono scelte di campo e di etica. Da che parte sta l’Italia?
Leave a Reply