Gentile Dottor Marcello Foa, nel congratularmi per la sua recente nomina alla prestigiosa Presidenza della RAI, vorrei cogliere l’occasione per rivolgermi a lei in quanto cittadino fruitore (sebbene saltuariamente) del servizio televisivo pubblico, ma anche in quanto blogger, autore di libri e ricercatore su una materia oggi piuttosto controversa: le relazioni di genere, le anomalie che vi sono connesse e la narrazione pubblica che di esse viene fatta, in particolare dai media.
Credo che con una qualche rapidità e facilità potrà riscontrare come sussista da molto tempo ormai uno sbilancio netto nel racconto che viene fatto ai cittadini rispetto a vicende che coinvolgano uomini e donne. Uno dei filoni di ricerca del mio blog è proprio questo: l’analisi della frequenza e dei metodi comunicativi utilizzati per dar conto di eventi, spesso purtroppo di cronaca nera, che vedono vittime ora le donne, ora gli uomini. Le prime godendo sempre di grande scalpore, prime pagine, colonne interminabili di opinionisti, i secondi finendo in qualche trafiletto di qualche giornale locale. Tirando le somme, questa narrazione trasmette al pubblico una e una sola chiave di lettura della realtà nazionale: le donne sono sotto un attacco feroce da parte di uomini crudeli e violenti. Ma non è vero.
Mi permetta di fare un breve excursus storico. In Spagna, ai tempi di Zapatero, si scopre il “filone d’oro” della questione femminile come possibile portatrice di voti, potere politico e business. La scoperta viene presto portata alle estreme conseguenze, con il ribaltamento, senza colpo ferire, dei principali brocardi giuridici occidentali, anzitutto quello dell’innocenza fino a prova contraria. L’esperimento ha un gran successo: il PSOE disloca una rete di parlamentari, sindacati, centri antiviolenza, avvocati, servizi sociali che si scambiano dirigenti e maggiorenti, il tutto facilitato da un’imponente lubrificazione degli ingranaggi attuata con denaro pubblico. Vittime di tutto ciò: gli uomini e i padri spagnoli, come ben rappresentato da un documentario rivelatore realizzato da una TV danese e da me tradotto in italiano.
Il laboratorio spagnolo è talmente promettente che ispira “l’internazionale femminista” a promuovere un accordo multilaterale per la difesa della donna, la cosiddetta “Convenzione di Istanbul”. Dopo molti anni a firmarla e ratificarla sono una trentina di paesi, tra cui l’Italia, più altri di scarsa rilevanza, e in assenza di stati determinanti. Insomma un flop sul piano del diritto internazionale. Tuttavia da essa si è partiti, in epoca di governi di sinistra, per cercare di replicare quanto già era stato realizzato in Spagna, su iniziativa del PSOE. Si diffondono da quel momento in Italia segni concreti della stessa anomalia iberica, sotto il profilo amministrativo, legislativo e di governo. Ma anche e soprattutto dal lato mediatico, indispensabile per sostenere questa deviazione sociale e il business correlato.
Giungono così in sequenza, commissionati dal Dipartimento Pari Opportunità, diverse rilevazioni statistiche proiettive dell’ISTAT. Vengono interpellate alcune migliaia di donne, essenzialmente al telefono e con un questionario preparato da associazioni tra le maggiori portatrici di interessi sulla “questione femminile”, come tale impostato affinché sia pressoché impossibile non registrare un qualche tipo di abuso. Il campione “rappresentativo” è pari a una forbice tra lo 0,04 e lo 0,01% dell’intera popolazione femminile adulta italiana. Eppure, applicando formule statistiche proiettive, l’ISTAT conclude che le donne che potrebbero ipoteticamente essere vittime di violenza sono, nella proiezione più recente, 8,8 milioni. Un bel salto rispetto al campione originario, ne converrà.
Il fatto è che si tratta di stime, gentile Presidente, per altro ottenute in modo metodologicamente discutibile. Ovvero sono ipotesi che, come tali, e come chiaramente specificato dalle note metodologiche ISTAT, andrebbero prese con estrema prudenza, verificandone la fondatezza attraverso l’incrocio con altri dati. Ad esempio le denunce reali di violenza presentate da donne alle forze dell’ordine. Quelli sono dati veri e ammontano a circa 45 mila denunce all’anno (dati Ministero della Giustizia, 2016), il 95% delle quali viene archiviata o si conclude con una assoluzione, a riprova che il fenomeno delle false accuse, divenuto strutturale in Spagna, ha contagiato anche il nostro paese. Senza contare che un sondaggio del tutto analogo realizzato dall’Unione Europea ha posto l’Italia al terzultimo posto tra i “paesi a rischio” per la violenza sulle donne. E senza contare che tutti i reati a danno delle donne sono in calo verticale da decenni ormai. A riprova che le stime ISTAT sono e restano appunto stime: un esercizio ipotetico di statistica.
Eppure i media parlano di “strage delle donne”, di “mattanza”, di “olocausto”. Lo fanno utilizzando i dati come se fossero cifre reali, e non stime ipotetiche. E così la retorica che io definisco “femminocentrica” dilaga, ponendo all’attenzione nazionale, come se fosse un’emergenza, ad esempio il fenomeno, per altro mai chiaramente definito, del “femminicidio”. Un fenomeno che conta tra le 50 e le 140 morti all’anno. Fatti tragici, ma quantitativamente fisiologici e insignificanti se paragonati alle morti sul lavoro (oltre 600 nel 2017, in maggioranza maschili), ai suicidi (circa 1.500 nel 2017, in maggioranza maschili), al fenomeno del “barbonismo” (si stimano 50.000 senzatetto, pressoché tutti uomini), o alle morti per infezioni post-ricovero (6.000 all’anno). Si chiederà, ora, perché condivido con lei questa realtà. E’ presto detto, gentile Presidente.
Il TG2, ad esempio, tiene in sovrimpressione il conteggio dei “femminicidi”. Un’iniziativa di grande appeal, ma che misura un fenomeno di fatto irrilevante. Perché non sostituirlo con quello dei morti sul lavoro? O, lo dico provocatoriamente, con il conteggio che tengo qui sul mio blog sui bambini e gli anziani vittime di violenza da parte di donne, che ha numeri ben più alti? Non solo: si sprecano sulle reti RAI trasmissioni che danno conto di fatti di cronaca, romanzandoli spesso per renderli più spettacolari, e fin qui niente di male. Se non fosse che “Chi l’ha visto”, “Amore criminale” e similari hanno un taglio sempre colpevolista verso gli uomini, o raccontano storie a senso unico, dove la vittima è sempre la donna. Non che quei fatti non siano accaduti, ma ve ne sono altrettanti dove la vittima è uomo, sebbene nascosti nelle pieghe della minuta cronaca locale o nelle storie agghiaccianti che il mio blog, come altri, ricevono pressoché giornalmente.
I telegiornali del servizio pubblico, tutti senza distinzione, non si discostano da quanto fa la carta stampata, su queste vicende. L’agenda setting è chiara e talvolta sfrontata nel proporre al pubblico notizie di primo piano, se si tratta di donne, in genere condannando già a prescindere la componente maschile, e relegando o addirittura non dando notizie dove la vittima è uomo. Il fenomeno #MeToo sarà noto anche a lei: processi mediatici che poi non hanno seguito giudiziario (l’unico a processo a oggi è Harvey Weinstein, con possibili esiti tutt’altro che scontati), ma in ogni caso devastano la vita alle persone, il tutto senza prove o testimoni credibili.
Perché, caro Presidente, non è solo un fatto di corretta informazione e deontologia professionale giornalistica, il che da solo basterebbe a indurre a un aggiustamento netto del tiro. Si tratta di una narrazione priva di fondamento reale che però viene assorbita da tutto il tessuto sociale, fino nelle sue falde più profonde. Anche là dove hanno sede individui che, per ruolo o cultura, dovrebbero essere più immuni da manovre comunicative politicamente orientate. Penso ai magistrati, anzitutto, che spesso dei media hanno paura e si lasciano così condizionare nella propria delicatissima professione. Ed è anche così che le false accuse saturano le procure, rendendo faticoso l’accesso alla giustizia per le vere vittime e privando sistematicamente migliaia di bambini della figura paterna. E’ così che viene minata alla base la possibilità di relazioni umane normali, non inquinate dal sospetto o dalla paura.
Soprattutto è così che si dà una rappresentazione della realtà del tutto falsata, destituita di ogni fondamento, unilaterale e unidirezionale nei processi di demonizzazione di un genere che, stando ai numeri reali, nella maggioranza dei casi è costituito da persone per bene, padri di famiglia dediti, leali, pieni di amore e disposti al sacrificio, o uomini appassionati, veri, lontani anni luce dal concepimento di atti violenti. Nella maggioranza dei casi in ciò accompagnati da meravigliose compagne che con loro condividono l’idea di un futuro costruito assieme. La narrazione femminocentrica ha creato una spaccatura in questa realtà, e come un cuneo vi si è insinuata dentro, picchiando forte per sgretolarla. Il tutto sulla base di un concetto di per sé non sostenibile: la violenza è solo o in gran parte maschile. Lo dice la logica, lo dice la storia, lo dicono i dati: non è così. Essa è una deviazione trasversale, tipica dell’essere umano, a prescindere dal genere. Un’informazione, che è di per sé cultura diffusa, corretta ed equilibrata in questo senso, non potrà che dare un contributo decisivo al contenimento delle anomalie, e al ritorno auspicato di un contesto di costruttivo, pacifico e reciproco riconoscimento di pari dignità, diritti, doveri e responsabilità tra uomini e donne.
Nel forte auspicio che la sua Presidenza possa segnare, nell’ambito del servizio e dell’informazione pubblica, un cambiamento tangibile e consapevole anche su questi, oltre che su altri aspetti, la prego nuovamente di accettare il mio più sincero augurio di buon lavoro.
Davide Stasi
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