Arrigo Barbieri, 57 anni; Marco Santamaria, 42 anni; Giuseppe Setzu, 48 anni. Tre uomini. Tutti morti lavorando, ieri, a Milano. Ai loro nomi si aggiunge quello di Giancarlo Barbieri, 61 anni, fratello di Arrigo, rimasto gravemente intossicato nel tentativo di salvare i compagni di lavoro. Sono scesi in un locale sotterraneo dove l’azienda per cui lavoravano scalda l’acciaio. Era saturo di un gas velenoso, forse azoto, che li ha uccisi.
Si dovrebbe lavorare per trovare, almeno, vita e sostentamento. I più fortunati lavorano anche per avere soddisfazione personale. Insomma, comunque la si veda, il lavoro è qualcosa che contiene in sé un’accezione tendenzialmente positiva. Quando il lavoro diventa morte e sofferenza, o ci si trova in un contesto disumano (lavori forzati, campi di lavoro o concentramento), o qualcosa semplicemente non torna.
L’impostazione culturale dominante, cui leggi, giudici e media si adeguano, parla di una società dominata dall’uomo, dal maschio. Una società patriarcale. La sua stessa esistenza richiede misure di bilanciamento a favore dell’altro genere, le donne. Be’, nel momento in cui un regime patriarcale non protegge dalla morte sul lavoro esponenti del proprio genere, si può dire che sia un regime del piffero, un dominio molto mal gestito, un reame molto mal governato. O forse si può più logicamente dire che quel regime non esista proprio. E dunque anche che le misure di bilanciamento non sono giustificate.
Non è mera filosofia e nemmeno una scusa per fare polemica. Si tratta di politiche e le politiche si fanno sulla base delle priorità. E le priorità si stabiliscono anche in base ai numeri reali che misurano i fenomeni. Nel 2016 i morti sul lavoro sono stati 1.130 (dati INAIL). Tra questi, 1.024 (91%) erano uomini. Buona parte degli infortuni mortali femminili sono avvenuti in itinere (mentre la lavoratrice andava al lavoro, non mentre lavorava). Facendo un enorme sforzo intellettuale e accettando il concetto (insostenibile) di femminicidio, nello stesso anno le donne uccise dal partner o dall’ex partner sono state in tutto 76 (dati ISTAT).
L’inesistenza del patriarcato di cui molti cianciano sta tutta qua. Nel confronto (ignobile, ma si deve pur fare se si vogliono capire le priorità) tra numeri relativi a vite che non ci sono più. Un sistema patriarcale garantirebbe in generale pochissimi morti sul lavoro, ancor meno di sesso maschile. Oppure stabilirebbe “quote rosa” anche nei mestieri più pericolosi, cosicché anche le donne morirebbero quanto gli uomini, ma lavorando e non andando al lavoro. Fuor d’ironia, ognuno ha davanti agli occhi quanto rilievo viene dato dalla politica, dai media, dagli apparati dello Stato alla strage delle persone che lasciano la vita sul posto di lavoro, e quanta alla cosiddetta “questione donna”. Più di mille morti contro più di settanta, da un lato; dall’altro, una pressione politica e mediatica inesistente e zero investimenti preventivi per l’uno, contro un’isteria ossessiva che va oltre il parossismo e una gran quantità di risorse per l’altro fenomeno.
Qualcosa, anzi più che qualcosa, decisamente non torna. Diciamo pure che viviamo in una realtà sovvertita. E la chiamano patriarcato.
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