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di Giuseppe Augello – Dopo cinquant’anni dalla legge Fortuna-Baslini, nessuno si sogna di tirare una prima somma degli effetti del divorzio sulla società italiana? E di quello che fu un giorno la famiglia? Duecento separazioni e cento divorzi al giorno, per un totale di 80.000 separazioni l’anno e 40.000 divorzi, e più di 4.000.000 di famiglie separate, in cosa incidono sui costumi, sui modi di vita, sui valori, sulla crescita delle nuove generazioni, ed infine sul grado di infelicità? Nella scontata considerazione che, vabbè, tanto ormai va così nel mondo occidentale, nessuno si ferma a considerare quale modello di vita sociale ci siamo abituati a considerare. Eppure, se una legge, che era nata per risolvere situazioni familiari altrimenti irrisolvibili, dare ordine a incancrenite crisi familiari e nuove convivenze, fughe ingiustificate dal talamo coniugale, ha finito per distruggere un tessuto sociale che aveva affrontato persino le disgregazioni di due guerre mondiali, senza subire mutamenti, qualcosa da dire c’è.
Il divorzio è divenuto (o tempora o mores) una prassi giudiziaria e un sacrosanto diritto individuale. Lo è divenuto talmente che non frega più a nessuno per quali motivi si divorzi. Basta uno dei due che lo voglia e il gioco è fatto. Esso è riconosciuto come un diritto individuale, molto più che i diritti che erano riconosciuti discendenti dal matrimonio e dei diritti riconosciuti alla discendenza naturale covata nell’ambito della famiglia. Se dovessimo giudicare dai risultati, la legge sul divorzio, distruggendo il significato stesso del matrimonio, ormai sopravvivente in meno del 50% dei coniugati, è un completo fallimento, in quanto non ha prodotto affatto maggiore serenità ma un mare di sofferenze. Disagi e lacerazioni sociali, e un tasso di attentati alla vita dell’individuo, maggiore forse a quello della criminalità organizzata, se si considerano maschicidi, femminicidi, tragedie familiari e suicidi. E centinaia di migliaia di persone, per lo più padri separati, che hanno perso tutto, casa, salario, figli e dignità. La crisi del matrimonio ha poi portato alla glaciazione demografica. Italia all’ultimo posto del mondo occidentale per natalità, ed Europa in un assurdo calo demografico, segneranno la fine di culture e conquiste millenarie di civiltà.
Esprimo fortemente un mio pregiudizio, riguardo alle idee comuni che stanno alla base della facilitazione dei divorzi: per i figli minori è meglio un divorzio che assistere a una conflittualità (un’assoluta falsità, nei limiti di non gravi violenze) e col divorzio cesserebbe, terminando la convivenza, il motivo alla base della conflittualità, la cosiddetta “incompatibilità di carattere”. Sono convinto, e non sono il solo, del contrario. Illuminante il libro “La Fabbrica dei divorzi: il diritto contro la famiglia” di Massimiliano Fiorin. L’articolo 29 della Costituzione continua a dirci, anche se nessuno vuol più ascoltare, che “la famiglia é una realtà naturale fondata sul matrimonio”. Non è, dunque, quello che le sentenze dei giudici vorrebbero che fosse. Il problema è proprio in quella radice ormai abbandonata da tutti, che è il matrimonio. All’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, in tutto il mondo occidentale, si è deciso che il diritto individuale a separarsi dal coniuge fosse incondizionato, e comunque prevalente sul diritto dei figli a essere cresciuti da genitori conviventi. Trattando del diritto di famiglia nel terzo millennio, invece, giustamente si sottolinea che nella nostra epoca quel che è importante non è il matrimonio, ma i bambini. Tant’è che tutto il sistema, a parole, si basa sull’esigenza di tutelare il loro «superiore interesse». La clausola implicita, però, è che questo interesse deve sempre essere subordinato a quello di ciascuno dei genitori a «rifarsi una vita».
Studi psicologici e sociologici hanno dimostrato invece che il trauma della separazione dei coniugi permane nei figli minori per tutta la vita. Molto più che avere assistito a qualche lite, quando per forza di cose ricomposta. E che l’assenza per lo più del padre, dopo il divorzio, l’alienazione da parte materna, generano confusione, devianza, abbandono scolastico, criminalità, assenza di rispetto per i valori e per le leggi sociali.
E per quanto riguarda la conflittualità, cosa succede con l’entrata in campo del divorzificio fatto di professionisti strizzacervelli e azzeccagarbugli nella migliore delle ipotesi interessati alla parcella? Cosa ancora, quando alla frattura si aggiunge l’abisso nazifemminista di denunce penali e di tremende accuse, nutrimento privilegiato delle arpie dell’arrivismo mediatico e delle professioniste dell’antiviolenza di genere? Un contesto che trova la complicità di una parte politica connivente nello sconvolgimento di milioni di vite, e che solo da poco comincia a pagare elettoralmente tale scelleratezza. Qualche residua madre preoccupata dell’avvenire dei suoi figli e i padri che vorrebbero continuare a svolgere il loro ruolo, guardano con crescente preoccupazione alla temibile alleanza tra le donne divorziste e una delle più potenti lobby contemporanee: “Buttatelo per la strada e tirategli dietro i suoi vestiti… non dovete preoccuparvi dei suoi diritti. Il vostro lavoro non è quello di prendere a cuore i diritti costituzionali dell’uomo che state calpestando”. L’individuo da trattare in questo modo è il padre di famiglia, la cui moglie abbia chiesto il divorzio e l’affidamento dei figli. E a fare questa raccomandazione fu Richard Russel, giudice della corte municipale del New Jersey, nelle istruzioni impartite in un seminario di formazione, nel 1994. Che ha fatto evidentemente scuola. In Europa si cerca, in qualche paese, di rimediare, in Italia ancora no!
La minaccia più grande, non tanto per la vita dei padri, ma per la stessa sopravvivenza della famiglia, nell’Occidente contemporaneo è infatti il funzionamento, marcatamente antipaterno, di quella che chiamiamo la fabbrica dei divorzi. Un organismo multiforme, dotato di enorme potere e influenza, che impiega e muove una buona fetta del reddito nazionale per disperdere le famiglie esistenti. In questa “fabbrica”, che in realtà distrugge anziché costruire, le decisioni più rilevanti appaiono prese dai giudici delle sezioni per il diritto di famiglia o dai tribunali dei minorenni, là dove sono operanti. Questi decreti, o sentenze, sono però accompagnati da una molteplicità di altre delibere, che possono decidere della vita di una famiglia e dei figli, e che dipendono da un vero esercito di impiegati della fabbrica dei divorzi: psicologi, assistenti sociali, periti di vario genere, amministratori di una quantità di enti. E ora anche centri antiviolenza destinatari di decine di milioni di euro estorti dal bilancio pubblico.
Un apparato ormai esperto nell’utilizzare gli apparati di potere dello Stato per distruggere la cellula base della società: la famiglia. Nell’insieme dei paesi occidentali, come nota Sanford Braver, psicologo all’Università di Stato dell’Arizona, circa il 70% delle rotture matrimoniali avviene per iniziativa femminile. Alla rottura del matrimonio, la madre è spinta sovente, e sempre poi sostenuta, dal variegato gruppo di operatori interessati. Tre su cinque rotture familiari coinvolgono bambini: negli USA più di un milione di bimbi americani all’anno vengono dunque presi dagli ingranaggi della fabbrica dei divorzi. Anche in Italia a chiedere la fine dell’unione matrimoniale sono soprattutto le donne, in misura non diversa dal dato medio occidentale. Secondo l’Istat “le domande di separazione presentate dalla moglie sono più del doppio di quelle presentate dal marito”. L’aspetto dell’autonomia economica della moglie, che si separa più facilmente se il marito non è al suo livello di reddito, sembra rilevante: “Nel caso in cui la donna sia occupata, la percentuale si eleva, mentre se è casalinga, scende”.
E poi dice che uno si butta coi preti. La battuta di è quella di Totò, e non poteva essere altrimenti. Il principe De Curtis, infatti, non si prese mai troppo bene con il mondo cattolico, visto che ai suoi tempi le questioni massoniche, ma soprattutto quelle matrimoniali, venivano ancora prese sul serio. Di cosa sia diventato il divorzio oggi, la società secolare non ha affatto voglia di discutere. Anzi, persino nel mondo cattolico è palpabile una certa riluttanza nel riproporre la questione. Certo, sussiste ancora l’eroica fermezza di alcuni vescovi, specialmente quelli più vicini a Benedetto XVI. Esistono anche numerosi parroci che riescono ancora a far risplendere barlumi di autentica vita cristiana, tra le famiglie delle loro comunità. Ma in molte altre diocesi e parrocchie – forse la maggioranza – sembrano persino compiaciuti del fatto di “essersi attestati su nuove posizioni”, come recitavano i bollettini di guerra ai tempi dell’Eiar, per non fare capire che le nostre truppe erano state sopraffatte. In effetti, può sembrare che oggi non abbia più senso continuare a parlare di divorzio, visto che è venuto meno il senso stesso del matrimonio.
I più recenti dati Istat ci dicono che in Italia ci si sposa sempre meno, e i figli nati al di fuori di unioni regolari sono già attorno al 25% del totale. L’accelerazione del fenomeno è stata fortissima a partire dall’inizio del XXI secolo, e le proiezioni ci dicono che nel 2020 i figli nati da genitori non sposati potrebbero essere uno su due. In breve tempo, l’Italia potrebbe anche colmare il ritardo – per così dire – che ancora la divide dal nord Europa o dal Regno Unito, dove già si parla del 75% delle nascite fuori dal matrimonio. Anche nel nostro Paese, con qualche residua differenza tra nord e sud, è venuto meno qualsiasi segno di differenziazione sociale tra l’essere o meno sposati. Fino a vent’anni fa era ancora diffusa l’idea dei figli come esito di un progetto di vita che partiva col matrimonio. Ma poi, a partire dagli anni novanta si sono rapidamente invertiti i termini. Dapprima si iniziò a sposarsi quando già erano venuti i figli, quasi a voler coronare il percorso compiuto. Ma anche questa fase è stata ormai superata. I paggetti e le damigelle che assistono felici al matrimonio di mamma e papà sono diventati un reperto vintage, come le voluminose videocassette che ce ne tramandano l’immagine. Oggi non ci si sposa nemmeno più, e i figli rimangono attestati sul tasso demografico dell’1,1 %, il più basso del mondo assieme a quello della Spagna. Se non cambia il trend, il popolo italiano in quanto tale si sta avviando a un’estinzione che non si era verificata in questi termini nemmeno ai tempi delle invasioni barbariche.
Joseph Ratzinger in alcuni suoi scritti lo aveva previsto con largo anticipo. La riforma protestante, che nel XVI secolo reintrodusse il divorzio nell’esperienza giuridica europea, in fondo non intendeva fare altro che tornare al passato, fino ai tempi di Gesù, 2000 anni fa, quando il ripudio era ammesso dalla legge mosaica come rimedio “alla durezza del cuore dell’uomo”. Invece, quel che si è introdotto in tutto l’Occidente negli ultimi quarant’anni, di pari passo con la rivoluzione sessuale, è stato qualcosa di essenzialmente diverso.
Il primo esempio moderno di no-fault divorce, divorzio senza colpa, è stato introdotto in California nel 1970, sotto il governatorato di Ronald Reagan. Fu la prima volta in assoluto che, in uno Stato moderno, divorziare diventò un diritto soggettivo insindacabile di ciascuno dei coniugi. E, secondo lo spirito del tempo, avrebbe dovuto trattarsi in particolare di un diritto femminile. Nel nuovo mondo femmistizzato, la donna avrebbe dovuto vedersi garantiti gli strumenti legali per liberarsi dalla dipendenza dal maschio. L’aborto fu solo il passo successivo. Basta uno sguardo alle date per capire quanto fosse falsa la vulgata laicista sul “ritardo civile” che il nostro Paese avrebbe attraversato in quegli anni, a causa della presenza del Vaticano. La legge Fortuna sul divorzio è infatti anch’essa del 1970, mentre la grande riforma del diritto di famiglia è del 1975. Tra l’altro, per la legge italiana, come detto anacronisticamente, separazione e divorzio dovrebbero ancora rappresentare rimedi estremi per le crisi coniugali altrimenti irrisolvibili, e non un diritto soggettivo. Tuttavia, fin dal principio, di fatto i Tribunali non hanno mai preteso che venissero dichiarate le vere ragioni delle rotture coniugali, accontentandosi della generica affermazione – anche unilaterale – sulla “incompatibilità di carattere”. Ancora oggi, questa frase che non vuol dire assolutamente nulla, è alla base di quattro separazioni su cinque, e tre divorzi su quattro.
Il millenario istituto del matrimonio è così divenuto, nel giro di un paio di decenni, un negozio giuridico senza più alcun valore né privato né pubblico. Un vero e proprio caso unico del diritto civile, che per il resto si regge ancora sull’elementare principio per cui pacta sunt servanda, che non si applica da 50 anni al matrimonio. In realtà, le promesse del giorno delle nozze – coabitazione, fedeltà, impegno a crescere i figli insieme – oggi non hanno più alcun valore, perché i coniugi non hanno più strumenti per chiederne conto all’altro. La gente comune ha iniziato a percepirlo, e a regolarsi di conseguenza. Il motivo per cui occorre continuare a parlare del “divorzio” è che, per quanto nessuno lo dica apertamente, a cinquant’anni dalla legge Fortuna la questione non è stata per nulla metabolizzata. Potrebbe sembrare il contrario, se si pensa ai “Saloni del Divorzio”, dove si organizzano servizi vari per i single di ritorno, e si offrono a prezzi stracciati esami fai-da-te per l’accertamento della paternità. Ma si tratta solo della facciata mediatica, che fornisce copertura al sistema giudiziario. C’è bisogno di lubrificante per impedire che la macchina si inceppi, e con essa il suo fatturato multimilionario.
Nella realtà quotidiana, invece, dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare sofferenza, disagio, malessere economico. In fondo, si tratta solo di una nuova applicazione della banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Nella catena di montaggio del divorzio, così come avveniva in quella della Shoah, ciascuno esegue il proprio compito obbedendo agli ordini ricevuti. Senza porsi il problema del significato e delle implicazioni di quello che fa. La crisi dell’istituto matrimoniale sta generando depressione, malesseri, e povertà collettiva, in maniera molto più ampia di quanto il mondo del diritto e della comunicazione siano disposti a ammettere. Gli operatori di questi settori, infatti, lavorano tuttora sulla base delle coordinate culturali del preconcetto femminista. Vedono ancora, cioè, il divorzio come strumento di liberazione individuale, da contrapporre alla struttura irrimediabilmente autoritaria della famiglia patriarcale. Tant’è che, quando capita che i delitti da divorzio si impongano alle cronache, l’unico abbozzo di spiegazione burina che i media riescono a proporre è quella della ancestrale violenza del maschio, che non riesce a tollerare le nuove libertà femminili.
In tutto il mondo occidentale, allo Stato gliene sarebbe fregato sempre meno di come i cittadini si comportavano in coppia, ma si sarebbe sempre più interessato solo della valenza economica dei genitori. Previsione quanto mai azzeccata, viste le migliaia di perizie che oggi – solo in Italia – vengono stilate riguardo all’idoneità genitoriale di chi si separa in Tribunale, da cui derivano i provvedimenti economici. I costi e le conseguenze di questo modus operandi sono enormi, e contribuiscono all’impoverimento collettivo. Oltretutto, il sistema è ferocemente discriminatorio verso la figura e il ruolo maschile. Al di là della propaganda politicamente corretta, la guerra contro il padre pare essere la vera, persistente, finalità dell’intero sistema, nonché la sua fondamentale chiave interpretativa.
“Le donne si comportano come se avessero di fronte un nemico da distruggere… non è sufficiente l’affidamento dei figli, l’obiettivo vero è negare il partner come padre e come marito”, riconosceva Lia Cigarini, femminista storica e poi avvocato matrimonialista a Milano, in un’intervista del 2004. Da allora a oggi i successi in questo senso sono stati crescenti, la paranoia delle definizioni di ciò che è da definire “violenza sulla donna” soprattutto psicologica, è da vomito: “abuso emozionale” “sottintesa denigrazione”, “noncuranza”, “trascuratezza economica e affettiva”, divengono tutti segnali di maltrattamento perseguibili d’ufficio, grazie a un apparato compiacente che si può giovare non solo del pregiudizio degli operatori giudiziari, ma anche di vere e proprie leggi speciali. In Italia sono stati gli operatori della Caritas (e poi dice che uno si butta coi preti) i primi a accorgersi del problema. Senza aspettarselo, hanno rilevato come stia crescendo sempre più la presenza dei padri separati tra i frequentatori delle loro mense e dormitori pubblici. E’ un esercito invisibile di disperati, che a causa dell’assegnazione della casa familiare alla moglie si sono ritrovati sulla strada nel giro di un mese, e con lo stipendio più che dimezzato.
Le false denunce di maltrattamenti, pedofilia, e di violenza sessuale, poi, sono diventate un vero e proprio affare per chi non ha scrupoli a ricorrervi. Il criminologo Luca Steffenoni, nel suo recente saggio “Presunto Colpevole” (ChiareLettere), ha individuato che solo il 17 per cento delle denunce di questo tipo si trasformano poi in condanne, sulle quali peraltro ci sarebbe molto da discutere. Quattro denunce su cinque provengono proprio dall’ex coniuge o convivente. Alcuni magistrati hanno iniziato a riconoscere apertamente che buona parte di queste denunce è strumentale, e finalizzata a mettere nell’angolo la controparte nelle cause civili per la separazione.
Gli effetti della persecuzione del padre, ad opera del sistema divorzista, sono già esplosi. Hanno cominciato a indagarli negli Stati Uniti, nel corso degli anni ’80. Agli Americani, si sa, piacciono i numeri e le statistiche, mentre invece noi Europei i dati preferiamo interpretarli. Ma i crudi numeri raccolti dall’US Department of Health and Human Services ci dicono che l’assenza del padre dal nucleo familiare in cui si è cresciuti è un fattore che ricorre più di tutti gli altri, rispetto ai casi di abbandono scolastico, alcolismo e droga, gravidanze precoci, depressione, suicidi, disoccupazione cronica, fino a arrivare alle situazioni più gravi di criminalità. Eppure, nonostante il sangue che scorre, l’impoverimento collettivo, i malesseri gravi dei soggetti coinvolti, l’ondata di emarginazione, ancora non si riesce a porre la questione nei termini di una vera emergenza sociale. E nemmeno a avviare un serio dibattito sul significato che, ancora oggi, potrebbe avere l’istituto del matrimonio. Perché, in fondo, il vero motivo per cui oggi tante coppie divorziano – e i più giovani non si sposano nemmeno – è perché sono incoraggiati a farlo. Il sistema li favorisce in tutti i modi. Gli avvocati sanno bene che un numero crescente di separazioni, specie tra le coppie di età più avanzata, non nasce da una vera rottura del loro legame, ma ha motivazioni nel disturbo psicologico che accompagna i cambiamenti del regime di vita per l’arrivo di figli, lo stimolo alla promiscuità in campo sessuale, la ripicca sempre in agguato per il non assoggettamento del partner ai diktat propri e delle famiglie di origine, ove le deboli coppie si rifugiano al minimo problema in cerca di sicurezza, i problemi economici imposti da un welfare a cui non frega nulla delle famiglie, considerate alla stregua di una impresa artigiana familiare in decadenza. Se i trentenni italiani di oggi non si sposano, ma nemmeno fanno scoppiare una nuova contestazione, forse è perché hanno troppe gatte da pelare. I loro genitori hanno costruito per se stessi un sistema che ha lasciato sulle loro spalle un onerosissimo debito pubblico, e in proiezione un ancora più spaventoso debito pensionistico. La generazione sessantottina oggi si sta godendo pensioni relativamente da favola, dopo avere accumulato risparmi, investimenti e proprietà immobiliari, che per i loro figli e nipoti rappresentano un autentico miraggio, mentre svuotano il salvadanaio. Del resto, anche senza scomodare le statistiche, alzi la mano chi oggi ha meno di quarant’anni e avrebbe mai potuto mettere su famiglia senza farsi aiutare dai suoi!
D’altra parte, i bamboccioni sono anche la prima generazione che è diventata adulta dopo avere conosciuto il divorzio di massa dei propri genitori. Anche questo probabilmente ha giocato un ruolo decisivo, sul piano psicologico, rispetto al loro attuale marriage strike. E mentre lo Stato e il sistema incoraggiano il divorzio alla minima crisi coniugale, l’avvento della teorizzazione della parità di genere, non nella dignità ma nel potere, ha trasformato gli ex coniugi in due concorrenti disposti ad una lotta all’ultima sangue, condotta anche a spese dei figli, nella quale, grazie alle istituzioni per il contrasto alla violenza dell’uomo, a uscirne perdente è sempre il padre. Una lotta patricida incentivata dal sistema divorzifici & C. sulla pelle degli orfani di padre vivente, e spesso non sopravvivente. Ecco perché la mediazione, come suggerisce il DDL Pillon, deve essere alla base, non solo delle condizioni di separazione, ma soprattutto a cominciare delle stesse motivazioni della separazione. E sulla recuperabilità dell’unione. Mediazione che allo stato costerebbe meno del malessere sociale e delle stragi familiari che scaturiscono da una completa inadeguatezza dell’assistenza alla famiglie, anche sul piano economico. Rendere del tutto sconveniente il divorzio per tutti, non solo per una parte, dovrebbe essere il minimo che sistema sociale interessato al futuro delle sue nuove generazioni, dovrebbe assicurare.
E allora che fare? Negli USA alcuni stati hanno cominciato a pensare a risposte anche sul piano giuridico, introducendo la possibilità di scegliere il covenant marriage, con il quale ci si impegna fin da prima delle nozze a non divorziare se non per cause oggettive, e dopo il ricorso alla mediazione familiare. Ipotesi ancora impensabile, in buona parte d’Europa. Però, sarebbe già un bel passo avanti se almeno cominciassimo a liberarci dei luoghi comuni da anni ’70, sui quali ancora si reggono le separazioni facili e le famiglie allargate. Come quello per cui i figli minori sarebbero meno pregiudicati da un divorzio rapido “tra persone civili”, piuttosto che dal crescere assieme a genitori che non vanno d’accordo, o non più innamorati. Serve combattere la subcultura che, per una madre, sia la propria personale felicità a essere necessaria per quella dei figli, piuttosto che il contrario. Basterebbe dunque, tante volte, che gli operatori coinvolti si informassero di più sulle dinamiche delle crisi familiari, e agli interessati ogni tanto sapessero dire la verità. E magari anche qualche no.
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