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Per chi non lo conoscesse, Mario De Maglie è un noto commentatore per Il Fatto Quotidiano, dove tiene un blog molto seguito. Oltre a questo, direi anzi prima di questo, è uno psicologo e psicoterapeuta che lavora in stretta collaborazione con il Centro Uomini Maltrattanti di Firenze. Sulla pagina Facebook collegata a questo blog ha lasciato un commento al mio recente articolo relativo a quello che ho chiamato il “business dei centri antiviolenza“. Con la sua autorizzazione, riporto di seguito le sue riflessioni, che mi sembrano significative, a cui poi farò seguire le mie. Ecco ciò che dice De Maglie.
Lavoriamo tutti sottopagati e con impegno massimo, non c’è alcun business. Artemisia non so se sai che gestisce delle case rifugio, non tutti i soldi finiscono alle operatrici. Hai idea di quanto costi mantenere delle case dove possono trovare temporaneo ristoro donne e bambini? Hai idea quanto quello che si riceve al lordo arrivi poi al netto? Hai idea di quanti centri antiviolenza basino la loro esistenza sul volontariato e il tirocinio? Artemisia, che mi risulta essere solo a Firenze, non so da dove sia uscito fuori che ha altre sedi, non è l’associazione messa peggio certo, ma c’è un lavoro enorme dietro. Con questi fantomatici uomini violenti io ci lavoro, sono tanti e spesso sono loro a chiedere un aiuto, nessun complotto. Altre volte certo non è così semplice e alcuni negano e sono inviati dai tribunali, ma lì abbiamo referti medici e prove di un certo rilievo. Io lavoro in carcere, hai idea di cosa significhi portare avanti un progetto in quella realtà, sia che ci siano i fondi, sia che questi non ci siano? Se uno volesse diventare ricco, non è il centro antiviolenza il posto più adatto. Ho lavorato quasi gratis due anni su Firenze prima di cominciare a portare qualcosa a casa. Davide, con tutto il rispetto per la tua esperienza, mi sembra che non conosci le realtà di cui parli, io ci lavoro da 9 anni e vado in giro per l’Italia e la situazione è tutt’altro che economicamente florida. Poi sulle leggi che non funzionano o potrebbero funzionare meglio sono d’accordissimo.
Ps: non so se sai cosa significhi lavorare a partita iva con fondi che non vengono garantiti, ma semmai rinnovati ogni tot di tempo, se tutto va bene.
[…] Ho letto in passato, articoli scritti da te, di ben altra caratura. La realtà è ben diversa da quella che racconti. Che poi ci sia un approfittarsi o appropriarsi di queste tematiche da parte dei media e della politica, e che la legge non tuteli allo stesso modo tutti, uomini e donne, è vero. Ma che la violenza sulle donne non esista o che i centri antiviolenza siano economicamente un business non è vero. Parli del mio lavoro e non ci sono dati o tabelle che reggano il confronto con quanto vedo e con quanto ascolto.
Caro Mario, nel mio curriculum professionale c’è un’esperienza significativa all’interno di una realtà attiva nei servizi sociali, come di fatto i centri antiviolenza e le case rifugio sono. Un’esperienza di cui serbo un ricordo molto vivido. Ricordo ad esempio che venni affiancato a un tizio incaricato di stendere il budget per una casa di riposo per anziani appena acquisita in gestione dal Comune. Avrei dovuto imparare da lui come si fa, ed ero entusiasta perché ho un’adorazione per gli estremi della vita, bambini e anziani, e il mio afflato di servizio era molto profondo. Fu dunque con un certo disorientamento che lo ascoltai fare ragionamenti del tipo: “come stracchino prendiamo la marca X che costa un sesto della marca Y… tanto nessuno del Comune controlla, e questi sono vecchi, non se ne accorgono… Agli operatori poi diamo il minimo mensile, e se ci riusciamo anche meno. Se non gli sta bene, ce ne sono tanti di disperati in giro pronti a lavorare nel sociale per due lire…”. Durante una visita successiva a quella casa di riposo, gli operatori mi confessarono candidamente, pensando forse di avere la mia complicità, che parte delle derrate prendevano la strada di casa loro: “tanto sono vecchi, mangiano poco”.
Vidi poi una parte dei soldi frutto delle “creste” fatte in questo modo sui soldi pubblici del Comune, e sulla pelle di utenti e operatori, riprendere la strada per il Comune stesso, trasformati in soldi privati e chiusi in valigette. Chiaro che, stanti così i termini della questione, la mia collaborazione non durò a lungo. Citai in giudizio in sede civile quella realtà e non vinsi la causa. La stravinsi. Con ciò mi guardo bene dal dire che Artemisia o tutta la realtà dell’assistenza sociale sia come quella che ho vissuto direttamente. Essendo forse il livello più basso di cinismo e orrore, però, mi ha insegnato molto, come sempre sono molto formativi i pessimi maestri. Quello che voglio dire con il mio aneddoto è un’altra cosa.
La tua riflessione espone il punto di vista di un operatore. Lamenti, sicuramente con ragione, che la tua professionalità e il tuo lavoro non sono remunerati come dovrebbero. Insomma che non ci si arricchisce a lavorare in un centro antiviolenza. Sai una cosa? Ne sono certo! In questo senso, a fronte delle cifre che ho rilevato, mi aspetterei da te non una difesa del sistema, ma una critica magari anche più aspra della mia. Con tutto quel giro di denaro, perché Mario De Maglie e i suoi colleghi vengono pagati così poco? A me oggettivamente la cosa non torna affatto. O meglio, qualche idea ce l’ho, se ripercorro la mia esperienza precedente. Mi chiedo invece perché non torni a te, che nel settore lavori direttamente.
Tuttavia mi preme segnalarti che la tua riflessione a commento del mio articolo è, a mio avviso, un po’ fuori bersaglio. Nel mio articolo non sostengo certo che gli operatori dei centri antiviolenza facciano la vita da nababbi coi soldi pubblici. Se lo rileggi con attenzione, vedrai che il piano della mia riflessione è diverso, più “economicista”, se vogliamo. O da cittadino “rompiballe” come qualcuno qui mi ha (giustamente) definito. E il punto più importante dell’articolo è dove dico che non intendo avere un approccio manicheo alla faccenda: sono pronto ad ammettere che, in presenza di una reale emergenza, quei denari siano giustificati, fino all’ultimo centesimo. Ma per arrivare a quell’ammissione, ho bisogno di alcune legittime certezze. Se rileggi le domande che ho posto al Comune di Firenze, e per le quali ancora non ho avuto risposta, comprendi bene cosa intendo.
Non mi torna, Mario, che l’emergenza sia tale da giustificare quegli stanziamenti. Che sono solo comunali: aggiungendo quelli regionali e governativi chissà che cifre vengono fuori. Risorse così ampie potrebbero essere giustificate da una situazione di Stato d’Assedio e coprifuoco a Firenze e comprensorio. Mi parli dei giudici che vi mandano molti casi da trattare. Sulla realtà fiorentina ho raccolto e sto raccogliendo molto materiale, che in un futuro porrò probabilmente alla discussione pubblica, e da quello che ho visto finora credo di poter dire che l’operato e i metodi della Magistratura fiorentina su queste vicende, così come di associazioni come Artemisia, non possano essere presi come parametro di riferimento affidabile. In ogni caso continuano a mancarmi diversi pezzi, a mio avviso determinanti.
Mi mancano dei numeri. La quantità di denaro pubblico trasferita ad Artemisia (come ad ogni altra associazione simile) deve essere giustificata da numeri, da casi reali. Che però non devono essere forniti e autocertificati dalle stesse realtà che ricevono i soldi, mi concederai che sul piano del metodo questa cosa non può essere accettata. Vorrei numeri asseverati da terzi. Mi manca poi che un ente pubblico che gestisce soldi di tutti si assicuri che i servizi resi da soggetti esterni siano conformi a standard professionali e di qualità certificati da terzi. Mi manca che l’ente pubblico controlli, possibilmente al centesimo, che i soldi di tutti vengano spesi correttamente (ovvero anche pagando il giusto gli operatori, e con puntualità, come è obbligo fare con il denaro pubblico). Mi manca di capire come le assegnazioni sono state fatte (perché lo “spezzatino”?). Mi manca di capire perché il Comune affidi denaro pubblico per fini incostituzionali, ovvero per servizi riservati solo a un genere, e dunque in contrasto con l’art. 3 della Costituzione (come d’altra parte è l’Intesa Stato-Regioni che regolamenta, si fa per dire, i centri antiviolenza e affini).
Come puoi constatare, il mio problema non è che Mario De Maglie e i suoi colleghi operatori possano indebitamente arricchirsi. Se il loro lavoro è giustificato da una domanda reale e la loro professionalità è, come sicuramente è, di alto livello nel dare un servizio di pubblica utilità e necessità, essi devono potersi arricchire. Io pongo un problema a monte, radicato nel mio dubbio (certezza) che davvero ci sia necessità di così tanti centri antiviolenza e affini, cui affidare così tante risorse pubbliche senza attuare alcun controllo. Per questo ho posto le mie domande al Comune di Firenze e non ad Artemisia o a qualche operatore. A me interessa capire se tutti quei soldi utilizzati per mettere delle toppe a delle emergenze e devianze che, quand’anche numerose, si manifestano al termine di un processo, non sarebbero meglio e più produttivamente spesi intervenendo per prevenire l’insorgere di quelle emergenze e devianze. Ovvero all’inizio del processo, per sostenere le famiglie, stabili o in disgregazione che siano, in difficoltà, per azioni di mediazione familiare, e così via.
Questo è il senso del mio articolo, Mario. E non posso fare a meno di chiedermi come mai non ti sia risultato chiaro. E soprattutto come mai non lo condividi.
Mozione d’ordine per i lettori: questa non è la pagina di un social network, non si può commentare scrivendo liberamente quello che passa per l’intestino. Questa è una mia pagina del mio blog. E’ casa mia. E chi viene ospitato in casa mia va rispettato. Se quindi qualche lettore sentisse l’istinto di sbroccare nel peggior stile analfabeta funzionale contro il mio interlocutore, cambi pagina. In ogni caso mi eviti anche la minima fatica di premere la X con cui cancello i commenti inappropriati. Grazie.
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