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E’ il 19 maggio. Sulle strade attorno a Modena una potente BMW sfreccia a tutta velocità, con a bordo due uomini. Toccano i 200 all’ora e filmano con il cellulare l’impresa. Poco dopo lo schianto. Fausto e Luigi, rispettivamente 36 e 39 anni, muoiono così. Una tragica storia come tante, apparentemente. Due teste calde, verrebbe da pensare avendo una zucca vuota e un cuore di cuoio. Due che in età matura fanno cose da ragazzini e ci lasciano le penne… Anche per questo i loro profili Facebook vengono presi di mira da quel cancro della società telematica attuale che sono gli haters. Insulti, dileggi, spregio, critiche ferocissime. Tanto si può fare tutto in anonimo, inclusa la frantumazione di ogni umanità, della compassione e dell’empatia. I social sono questo, d’altra parte: sfogatoio e cacatoio pubblico di private frustrazioni.
Ma una spiegazione c’è sempre, anche per eventi così tragici e assurdi. Proprio quella spiegazione viene soffocata dalle ondate d’odio internettiano. Per quanto sia lampante, cristallina, in questi casi serve dunque riaffermarla, gridarla chiara e forte. E a farlo è la madre di Fausto, il più giovane dei due scomparsi. “Mio figlio era un ragazzo fragile, che si lasciava trascinare dagli altri…”, dice, interpellata da un sito di news. “Anche suo papà è morto in un incidente, quando ero incinta. Fausto non l’ha mai conosciuto suo padre. Quando anche suo nonno è morto, sono iniziati i problemi. Fausto era un ragazzino molto vivace, a volte scappava e bisognava andare a cercarlo. Ho fatto ciò che potevo per prendermi cura di lui, anche con il sostegno di uno psicologo e dei servizi sociali. Ma era difficile…”. Sì, è difficile che una madre, per quanto volenterosa, possa sopperire al ruolo normativo di un padre. Prove ce ne sono molte e la tragedia di Fausto è una di più.
I social sono questo, d’altra parte: sfogatoio pubblico di private frustrazioni.
Ma non c’è solo questo: non riuscendo a imporre limiti al figlio, pur con il supporto del nonno, la donna è costretta a rivolgersi ai servizi sociali, alle loro comunità e case-famiglia. Fausto cresce dunque non solo con un pezzo mancante, ma in un contesto notoriamente governato da una diffusa incompetenza, a sua volta minata da un business vergognoso, più volte e in diverse sedi denunciato. Cede alla tossicodipendenza, ne esce grazie a una comunità di recupero, ma di fatto è una cellula impazzita nel corpo sociale. Fino allo schianto finale. Era una persona che non ha conosciuto il proprio padre, che è stata priva per tutta l’infanzia e la giovinezza di una figura maschile normativa ed educativamente repressiva, subendo invece i surrogati inefficaci e spesso dannosi di una madre che, pur se piena di amore e buona volontà, si improvvisava padre, e di servizi sociali che il più delle volte sono una vera iattura per chiunque. Il tutto per ammissione della stessa donna, cui va un abbraccio di calda solidarietà.
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A questa narrazione la stampa ha dato miracolosamente spazio sebbene (ovviamente) su una testata locale e poco conosciuta. Ma ogni medaglia ha sempre un altro lato, ed ecco che al piccolo passo avanti si risponde con diversi balzi all’indietro. Quel piccolo onore fatto alla figura paterna, sulla scia di una terribile tragedia, viene ribilanciato con l’ennesimo colpo distruttivo alla figura del padre. Così emerge nella vicenda del piccolo Leonardo Russo, massacrato di botte fino alla morte da Nicholas Musi, nuovo compagno della madre del piccolo, Gaia Russo, l’esistenza di un padre naturale. Mentre i media si dedicavano anima e corpo alla (sacrosanta) criminalizzazione dell’omicida, guardando bene di tener fuori dalla vicenda le eventuali responsabilità materne, qualcuno nell’opinione pubblica si chiedeva che fine avesse fatto l’uomo con cui Gaia Russo aveva concepito il piccolo.
Il media di massa lo scovano finalmente e rispondono a questo arcano. Si chiama Mouez Ajouli e oggi è disperato. “Non mi reggo più in piedi dal dolore. Ho provato ad andare a casa, in ospedale, a casa della mamma di lei, chiamo e non mi risponde nessuno… Mi stanno tutti tenendo fuori da questa storia e io soffro tantissimo. Mi vengono in mente tutte le cose che facevamo assieme, quando giocavamo, quando uscivamo assieme. Lo faceva impazzire ascoltare una canzoncina, ‘Volevo un gatto nero’, e io tutte le volte gliela mettevo sul telefonino e gliela facevo sentire. Lui era contentissimo, provava a cantarla e a ricordarsi le parole. Gli volevo un bene pazzesco…”. Una mascolinità tossica spezzata e in lacrime, niente che sia degno di nota in quest’Italia femminarcale. Mi chi è la causa ti tanto dolore paterno? L’omicida del piccolo? Anche, ma si tratta solo dell’esecutore materiale. Esiste anche un mandante, ed è quell’autorità che ha impedito ad Ajouli di vedere di più, accudire di più, vigilare di più su suo figlio, affidato quasi totalmente alla madre.
Il mandante è quell’autorità che ha impedito ad Ajouli di vedere di più, accudire di più, vigilare di più su suo figlio, affidato quasi totalmente alla madre.
Sarebbe dunque una buona occasione per approcciare al tema della paternità in modo oggettivo, per riaffermare che, vicende di Modena e Novara alla mano, il padre è una componente fondamentale nella crescita e nella protezione della prole, e che è tutt’altro che scontato che una madre da sola possa bastare. Invece no: i media di massa si limitano a registrare con visibile distacco la disperazione di Ajouli. Non ci devono essere varchi a una narrazione diversa da quella ordinaria, dunque non si trova alcun approfondimento sulle vicende separative che hanno messo il piccolo Leonardo nelle mani di una irresponsabile. Il comandamento di onorare il padre non è contemplato, e se un’oscura testata giornalistica di Modena cade nell’errore di farlo, ecco che i media di massa corrono a mettere la toppa, mostrando con distacco la distruzione di un padre. Con distacco e, a buon peso, con dileggio, pubblicando a corredo dell’articolo che tratta della disperazione di Ajouli una foto di suo figlio tra le braccia di colui che l’ha ucciso.
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